Diario della Crisi – Eurobond: ultima chiamata per l’Unione


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In questi giorni, i leader europei si sono espressi fortemente a favore di una permanenza di Atene nella moneta unica: la Grecia resti nell’euro, è l’appello che nei giorni scorsi dal summit di Bruxelles è arrivato agli elettori e politici greci, al loro senso di “responsabilità”. Forti dell’appoggio di Obama e probabilmente anche degli ultimi sondaggi sulle elezioni del prossimo 17 giugno che disegnano un quadro politico sensibilmente diverso rispetto alla settimana scorsa. Infatti i partiti tradizionali, che dallo scorso 15 maggio hanno ricevuto l’appoggio esplicito dei paesi dell’eurozona, stanno riguadagnando consenso; in particolare Nuova Democrazia ha polarizzato il voto moderato e ora si attesta stabilmente oltre il 20%, insidiando così Syriza (il partito di estrema sinistra contrario al memorandum) per il primato e il fondamentale premio di maggioranza che ne consegue. Anche se le percentuali differiscono non di poco da istituto a istituto, le ultime rilevazioni indicano che alle prossime elezioni greche i conservatori di ND e il partito di Tsipras si giocheranno una partita che al momento appare quanto mai incerta.

Insomma, rispetto alla settimana precedente i segnali di una schiarita c’erano tutti. Eppure gli attori finanziari sono stati di tutt’altro avviso: i mercati sono rimasti nervosi, estremamente volatili e hanno chiuso la settimana in sostanziale parità; il rapporto euro/dollaro ha continuato la sua discesa sotto 1,25 ai minimi dal 2010 (Bloomberg,  EURUSD:CUR); i rendimenti dei bond dei paesi dell’eurozona sono tornati a livelli pre-euro (ilSole24Ore, RENDIMENTI) e fonti con conoscenza della materia dicono che gli hedge fund si stiano riposizionando diminuendo la propria esposizione in Europa. Si mormora addirittura che la Bce abbia chiesto agli stati dell’Unione di mettere a punto piani per reggere l’urto di un’uscita della Grecia dall’euro e Citigroup, la prima società di servizi finanziari, ha aumentato al 75% la probabilità che l’ormai più che immaginabile (e immaginata) eventualità si realizzi entro i prossimi 12 mesi, fissando la data per gennaio 2013. Se a tutto ciò si aggiungono le preoccupazioni per lo stato in cui versa il sistema bancario spagnolo, si ottiene un quadro sempre più preoccupante.

La motivazione di questa apparente contraddizione è invero semplice: i recenti incontri internazionali hanno infatti portato alla ribalta il controverso tema dell’europeizzazione del debito. Ai più ormai appare chiaro che l’unica soluzione realistica nel lungo periodo ai problemi dell’Europa siano gli Eurobond. Al momento i 17 stati che hanno adottato la divisa comune, e che cioè hanno aderito all’unione monetaria, non sono riusciti a procedere né verso l’unione fiscale (la “condivisione” del debito tramite appunto gli Eurobond) né tantomeno quella politica. Questo significa avere una banca centrale comune senza una comune visione e che pertanto si limita spesso e volentieri a un ruolo passivo non potendo essere motore di sviluppo, come invece accade per esempio negli Stati Uniti. Significa inoltre avere la stessa fortissima moneta in economie sia deboli che forti ma differenti costi del credito. Significa in definitiva giocare in una squadra di singoli. I mercati questo lo sanno e ancor più di loro lo sa la speculazione internazione che da quando, tre anni fa, è cominciata la crisi del debito sovrano ha approfittato proprio di queste debolezze. Fin da tempi non sospetti, si è stati concordi nel ritenere la realizzazione degli Eurobond un passo necessario per la stabilità finanziaria dell’eurozona e per la sopravvivenza dell’euro stesso: Grecia o non Grecia, che pure ora rappresenta la minaccia maggiore, senza integrazione fiscale sarà solo questione di tempo prima che l’intero sistema, minato dalle inefficienze interne, collassi sotto gli attacchi esterni. Perché allora non si decide in questo senso? La difficoltà maggiore all’introduzione degli Eurobond è la storica opposizione della Germania.

Se ne è parlato durante il G8 di Camp David e il summit di Bruxelles. Incontri che verranno ricordati se non per aver trovato delle soluzioni concrete alla crisi, almeno per aver segnato una forte rottura con il passato dominato da “Merkozy” e dalla sudditanza dei paesi periferici. Deve essersi sentita insolitamente sola Angela Merkel questa volta: in entrambe le occasioni infatti  la vittoria di Francois Hollande alle scorse presidenziali francesi  ha finalmente avuto le conseguenze che tutti attendevano: l’asse franco-tedesco sul rigore non esiste più. Non solo. Ora tutta l’Europa (con l’eccezione del “club della tripla A”) fa fronte comune e preme sul cancelliere affinché le politiche comunitarie siano mirate a favorire la crescita e non più unicamente dettate da quel rigore che ha costretto il vecchio continente a due anni di crescita zero quando non direttamente di recessione (come è il caso anche dell’Italia). Le richieste di Francia, Italia e Spagna, che spingono ora con determinazione sulla crescita, sono in definitiva due: una Bce garante dei debiti nazionali e l’introduzione degli Eurobond. La prima condizione garantirebbe solidità e protezione agli stati dell’Unione agendo da deterrente nei confronti della speculazione; la seconda rappresenta il passo fondamentale verso l’unione fiscale e renderebbe più competitivo il mercato del credito dei paesi periferici, oltre che aumentarne la stabilità.

Come era prevedibile tuttavia la Germania, in linea colla sua posizione storica, si è subito fermamente opposta all’idea degli Eurobond. L’attuazione degli Eurobond ha in nuce il rischio di moral hazard  e la possibilità che paesi finora ben poco esemplari come la Grecia finiscano per appoggiarsi sulle spalle grosse di Berlino senza risolvere i propri, gravi problemi interni. «Non ha alcun senso ricondurre tutto agli eurobond che non farebbero altro che aggravare la crisi» ha detto la Merkel. Tradotto: la Germania non accetterà che il peso dei debiti di altri gravi sulle proprie spalle. Anche se questo significherà l’uscita della Grecia dall’euro e la possibilità di altri abbandoni? Schuld è la parola tedesca per “debito”. Fatto curioso, in quella lingua lo stesso termine significa anche “colpa”. È questa piccola osservazione linguistica la chiave di volta di tutta la faccenda.

Proprio ieri la Bundesbank ha rivelato che la ricchezza privata dei tedeschi ha raggiunto nel 2011 il suo massimo storico. Titoli di debito comuni significherebbero tassi certamente maggiori per i tedeschi che al momento sono arrivati a finanziarsi a interessi zero (Bloomberg, //link). Quindi non è difficile immaginare le motivazioni dell’ostilità tedesca agli eurobond. Inoltre non è da sottovalutare l’impatto delle prossime elezioni tedesche (il 67% dei tedeschi è favorevole all’uscita della Grecia dall’euro). Ma davvero sarebbero capaci di opporsi portando nel baratro la moneta unica? La posizione tedesca ha radici più profonde di quanto solitamente si dice ed è necessario fare un passo indietro di vent’anni fino ai giorni del Trattato di Maastricht. Fu in quel frangente che si decise la nascita della moneta comune e si fissarono i paletti tra gli stati a che quella rivoluzione potesse compiersi. Mentre sono note a tutti le condizioni di solidità imposte per l’entrata, in pochi sanno che i tedeschi, già allora prima potenza economica del continente, richiesero una doppia assicurazione per acconsentire a far parte dell’unione monetaria e in definitiva a far nascere l’euro. Perché  accettasse di entrare nell’euro alla Germania  fu garantito che non si sarebbe creata inflazione e che, ancor più importante, questa non avrebbe dovuto prendersi carico del debito degli altri paesi. Shuld, “colpa” appunto. A partire da allora, non senza qualche ragione, Berlino non ha mai accettato di “condividere” il peso di errori e abusi di spesa pubblica. Tuttavia, come detto, questa volta i paesi favorevoli ai bond europei hanno fatto fronte comune. «I tempi sono maturi» ha annunciato il premier italiano Mario Monti che venerdì si è poi sbilanciato come mai prima affermando che il cancelliere Angela Merkel potrebbe essere persuaso ad accettare un compromesso per il «bene comune». Che Berlino abbia le sue ragioni è fuori discussione, ma qui si deve decidere se continuare o meno l’esperienza dell’euro; e se lo si vuole fare la strada è già segnata da tempo.

C’è da sperare che qualcosa stia davvero cambiando. «Sarebbe una tragica ironia se la Germania unita, con mezzi pacifici e le migliori intenzioni, causasse la distruzione dell’ordine europeo una terza volta» ha dichiarato l’ex ministro degli esteri tedesco Joschka Fischer. L’euro è nato come “testa di ponte” per un’operazione ben più ampia: nelle intenzioni avrebbe infatti dovuto essere seguito dall’europeizzazione del debito e gettare le basi per l’integrazione politica. Ora la crisi ci ha portato in una direzione diversa, quasi dimentichi delle iniziali intenzioni. Se vogliamo far sopravvivere questo progetto, ognuno dovrà assumersi le proprie responsabilità. Alcuni dovranno cambiare decenni di abitudini sciagurate, altri perdere le elezioni, altri ancora la cara tripla A. Ma è evidente che l’austerity esasperata in tempo di crisi storicamente non mai portato altro che depressione e la Germania farebbe bene a ricordare i tempi di Weimar. Se vogliamo salvare l’euro e noi stessi, dovremo procedere speditamente verso quell’integrazione fiscale che garantisca stabilità, sicurezza e risorse necessarie per le riforme e per la crescita. Insomma per lo sviluppo e per una “unione” veramente compiuta.

La Grecia Resti nell’euro. È l’appello che i leader europei hanno fatto nei giorni scorsi agli elettori e politici greci. È l’appello che nei prossimi mesi dovranno fare a loro stessi.

 

Di Giacomo Mariotti, mariottig@me.com

10 Comments

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  1. simone

    Il destino della Grecia dipende nel breve termine da queste elezioni politiche. Ma mi chiedo se essa possa resistere nel lungo periodo, anche se assurgesse un governo favorevole al memorandum: continuare con una moneta così forte e rimanere fermi su una politica di forti tagli che, verosimilmente, durerebbe per decenni probabilmente non sarebbe economicamente sostenibile per la grecia e difficilmente potrebbe esserle motivo di sviluppo economico. Nel rapporto debito/pil il pil è al denominatore quindi è inutile diminuire il debito se, di conseguenza, diminuisce anche il pil nelle stesse proporzioni (o ancora peggio in proporzioni maggiori). La teoria economica vuole che quando gli interessi sul debito superano il tasso di crescita del pil si finisce in un vortice vizioso in cui il rapporto dbito/pil diverge esponenzialmente. Questa condizione si è già verificata da anni in Grecia e le politiche europeiste non hanno fatto altro che rinviare il problema. Nella pratica, forse, intervenendo con politiche di rigore e nello stesso tempo con serie politiche di crescita (o quanto meno di riduzione della decrescita) si potrebbe rimediare a questo problema, ma date le dimensioni del problema viene da dare ragione alla teoria per cui l’unica soluzione accettabile sarebbe un default. D’altronde non è neanche corretto nei confronti dei cittadini greci imporre loro dei sacrifici enormi per i prossimi vent’anni considerato che un default, dall’altro lato, li porterebbe in condizioni catastrofiche nel breve periodo ma li avvantaggerebbe nel lungo: con una moneta tanto debole come quella che si ritroverebbero non potrebbero comprare prodotti esteri (perchè costerebbero troppo) avvantaggiando quindi la produzione ed il mercato interno, migliorerebbero le esportazioni all’estero dato che i prezzi delle loro merci all’estero sarebbero probabilmente dimezzati e allo stesso tempo non sarebbero strozzati dal debito.
    Per quanto riguarda una comune politica del debito, Grecia o non Grecia, si è già parlato anche di una comune politica fiscale (delle tasse) però a mio avviso si tratta di un obiettivo di difficile raggiungimento dato che l’eurozona è troppo fragmentata sia politicamente che storicamente che culturalmente. L’europa non è l’America: la sfida che si è voluta accettare con il tratto di Mastricht creando una zona che volesse atteggiarsi ad assomigliare agli stati uniti con una politica economica comune non avendo le caratteristiche economico-politiche di cui gli stati uniti possono vantare ha mostrato che i problemi che 20 anni fa si sarebbero reputati solamente teorici appartengono invece alla realtà. L’eurozona ha delle barriere nazionali di tipo linguistico (non in tutti i paesi eropei si parla bene l’inglese-soprattutto in Italia- nè tantomeno nessuno conosce l’esperanto che si pretendeva divenisse lingua internazionale per comunicare tra i popolo :)), di tipo culturale ed economico che limitano la mobilità tra gli stati (presente invece in america) dove se sei in uno stato più povero e non trovi lavoro ti sposti più facilmente. Questi limiti portano ad aggravare la disputa tra azzardo morale e benefici di un eurobond. La soluzione di questa diatriba appare oggi difficile e il rischio è che venga rimandata ai posteri.

  2. simone

    probabilità di default della grecia in 12 mesi data al 75% da citigroup… mmh: consolante
    speriamo non sia come la doppia A data delle agenzie di rating alle Lehman 2 giorni prima del collasso 😀

  3. simone

    Aggiungerei un altro elemento importante di valutazione.
    Se oggi vi chiedessero che tipo di crisi è stata quella del 2008, voi cosa rispondereste? una crisi della finanza? non sarei del tutto d’accordo. A mio avviso è stata più precisamente una crisi del debito. L’America ha perseguito, sotto Bush (ma forse anche prima…non sono ben informato), una politica di favorimento dell’acquisizione delle case per tutti e possibilmente di case più belle per i più benestanti anche sopra le proprie reali disponibilità. Tutto questo è stato possibile grazie al debito privato: i cittadini continuavano a fare debiti su debiti e non solo per le case e non solo in America. In Inghilterra, soprattutto a Londra, le persone spendevano una quantità incredibile di soldi per fare la bella vita: in un giorno quando uscivano la sera potevano spendere anche centinaia di sterline. Questo non era dovuto al fatto che avessero tanti soldi bensì al fatto che grazie a delle carte di credito potevano andare a debito e iniziavano a pagare gli interessi sui debiti facendo altri debiti con queste carte. Questo è l’esempio lampante di come sia stato gestito il debito privato, in principal modo nei paesi anglo-sassoni. Ad un certo punto questa bolla del debito privato doveva scoppiare ed è scoppiata. Sarei disonesto se dicessi che la finanza non abbia giocato un ruolo in questa crisi, ma è stato solo un ruolo amplificatore di essa e non una causa come si dedurrebbe dalla sigla “crisi della finanza”: la crisi della finanza e quella della liquidità delle banche, lo ripeto, sono state sono un effetto amplificatore ed una conseguenza.
    Per salvare le banche (e per salvare il mondo) gli stati sono intervenuti sganciando soldi di tasca loro in un momento in cui la “crisi della finanza” aveva già provocato un fenomeno di decrescita reale e le politiche megaespansionistiche di tutti i paesi sviluppati avevano aumentato il debito pubblico (il debito, cioè, degli stati) andando ad aggravare quest’ultimo e portando a quella che oggi è la crisi del debito pubblico. In sintesi le manovre che sono state fatte, per quanto probabilmente necessarie, hanno semplicemente spostato il problema dal debito pubblico al debito privato, o in altre parole, hanno solamente rinviato il problema.
    Ora che i paesi (soprattutto quelli dell’eurosud) si trovano con un debito alto da curare si pensa all’austerity come medicina ma io mi auguro che questa soluzione non trasformi l’attuale crisi in una terza crisi: quella dell’economia reale. Lo diceva Keynes: bisognerebbe fare tagli quando l’economia è in salita e aumentare le spese pubbliche quando è in recessione (daltronde nella crisi del ’29 un fattore decisivo nella sua soluzione è stato l’intervento da parte dello stato ma ciò era possibile perchè c’era un relativamente piccolo debito pubblico). Ora stiamo facendo esattamente il contrario: durante l’ultimo secolo di sviluppo economico tutti gli stati sviluppati hanno aumentato il debito pubblicare per sostenere tale sviluppo e ora che c’è la crisi siamo costretti a fare tagli. Questa politica anti-Keynesiana potrebbe non essere senza vittime: facendo tagli diminuiamo il debito… è vero ma rischiamo al contempo di minare la crescita economica. Non è impossibile che la Grecia fallisca. Non è impossibile che se la Grecia fallisca gli altri stati europei deboli vedano aumentati in maniera corposa i loro tassi di interesse. Non è impossibile che se i tassi di interesse di Spagna, Italia e quant’altri aumentino in maniera consistente questi stati dovranno iniziare a fare politiche di austerity serie e di lunga durata. Non è impossibile che ingenti tagli portino alla recessione e che il rapporto debito pubblico di conseguenza non diminuisca e addirittura cresca. In questa situazione questi stati sarebbero troppo grandi per essere salvati e se dovessero fare default si ritroverebbero con la beffa di avere avuto delle politiche che non hanno fatto altro che diminuire ulteriormente l’economia arrivando comunque ad un default e gli altri stati sviluppati si troverebbero con dei mercati esteri in meno potendo così provocare anche la recessione della loro economia.
    Forse tutto ciò è fantaeconomia e forse sono troppo catastrofista perchè magari la moltiplicazione di tutte queste probabilità porta ad un numero molto basso.
    Sta di fatto che la storia recente ha dimostrato ciò che in realtà è una pura osservazione a posteriori (anche se potrebbe sembrare solo teoria a priori): l’economia mondiale non è dissimile da quella di un’azienda. Se un’azienda incontra delle crisi strutturali che non sono risolvibili tutto ciò che potrà fare è rimandare il problema con altri debiti o altri stratagemmi ma alla fine cederà. Spero che la nostra storia non si riduca alla storia di una tale azienda

    • Giacomo Mariotti

      Ciao Simone!

      Come sempre i tuoi interventi sono pertinenti e stimolanti. Ti ringrazio per questo!
      Quanto alle tue osservazioni, per semplicità mi permetto di riassumerle in tre macro punti:

      1) Crescita vs rigore;
      2) Ruolo della finanza nella recente crisi;
      3) Possibilità di una reale integrazione europea.

      Vediamo un po’. Il punto 1) non credo necessiti di particolari analisi: sono perfettamente d’accordo con te, in tempi di “magra” si deve investire quanto accumulato nei periodi favorevoli. E’ inoltre vero che la Grecia difficilmente potrà sopportare a lungo queste misure di austerity e mantenere al contempo una moneta così forte. Non dovremmo mai dimenticarci che stabilità dei prezzi in Germania significa depressione in Grecia.

    • Giacomo Mariotti

      2)Anche qui c’è poco da dire. La grande finanza internazionale (che, come dice Francesco nel suo commento, avrebbe comunque bisogno di una più stringente regolamentazione) non può creare crisi da sola. In effetti il suo “potere” è quello di amplificare alti e bassi con una sorta di effetto leva. Così come nella crisi del 2008 i derivati hanno moltiplicato su scala planetaria le conseguenze dell’insolvenza di tanti americani che hanno chiesto mutui non avendone le possibilità, ora la speculazione infierisce là dove stati come la Grecia hanno vissuto decenni di spesa folle e malgoverno.
      Unico appunto, non mi sento di condividere pienamente l’affermazione per cui a seguito della crisi del 2008 il debito privato sia diventato debito pubblico. Certamente quella crisi ha gravato sui bilanci statali (tra aiuti, ricapitalizzazioni ecc), ma il problema del debito ha radici ben più profonde sintetizzabili in ultima analisi negli eccessi di spesa pubblica improduttiva.

    • Giacomo Mariotti

      3) Qui invece ci sarebbe da parlare all’infinito! Ti dirò semplicemente la mia opinione. Concordo con te quando richiami le enormi differenze all’interno dell’Europa: ci sono stati in cui alcune regioni non si riconoscono nel governo centrale (Spagna per esempio); figuriamoci se è pensabile che tutti lo facciano nell’Europa..
      L’euro doveva servire proprio a superare questo e mi sento di dire che in parte c’è riuscito. Ora serve il passo successivo (integrazione fiscale). Credo che prima di abbandonare il progetto-sogno che si è fermato, dobbiamo provare fino all’ultimo a farlo ripartire.

  4. Francesco

    Parliamo sempre di crescita crescita crescita,ma ci sarà pure un limite anche verso l’alto? non si potrà sempre crescere,le persone,nella parte occidentale dell’emisfero,la parte a nord,in senso lato,hanno oramai tutto quello di cui hanno bisogno e anche molto di più.
    Nel nostro mondo non si muore più di fame,si muore per troppo mangiare,abbiamo televisori dell’ultima generazione,un telefono e mezzo a persona,automobili che hanno una vita media tre volte superiore a 20 anni fa,scoppiamo di beni di consumo insomma!
    E’ il terzo mondo che ha bisogno di tutto.Qui da noi,in occidente,e’ venuta l’ora di rivedere il nostro modello di sviluppo ed e’ ora che i governi mondiali mettano regole precise e drastiche non solo per la fiscalità e il pareggio di bilancio,ma anche alla finanza,allo strapotere delle banche a tutti quei prodotti finanziari che da soli possono mettere a soqquadro una nazione intera e di conseguenza tutto il sistema. Dovremmo,in sostanza,pensare va come vivere meglio con quello che abbiamo,migliorando la qualità della nostra vita. Si mettono regole su tutto,dalle taglie dei vestiti alla misura delle banane esportabili,perché non pensare a limitare lo strapotere della speculazione finanziaria internazionale.
    Francesco

    • simone

      caro francesco, credo che la tua risposta possa essere in linea di massima condivisibile (anche se non dal punto di vista personale)in una situazione generale non di crisi. Ma in questo momento il nostro problema è che abbiamo un rapporto debito/pil troppo elevato e per abbassarlo la crescita del pil congiuntamente ad un abbassamento del debito è una buona strategia

    • Giacomo Mariotti

      Ciao Francesco,

      Perdona la brevità della risposta a un’osservazione che richiederebbe ben altro lavoro, ma sono un piuttosto impegnato in questi giorni.

      Diciamo che condivido solo in parte la tua analisi. Certamente è vero che la finanza deve essere regolamentata con leggi più severe e maggiori controlli; d’altro canto sono fermamente convinto che il suo “potere” sia in massima parte amplificatore: un paese sano non verrà mai messo in crisi dalla speculazione (ma è solo la mia visione).
      Per il resto è vero che noi viviamo anche nel superfluo, ma che cos’è il superfluo? Forse che tante cose oggi ritenute essenziali non erano “superflue” in passato (istruzione ecc)? La il binomio superfluo-essenziale è soggettivo secondo me e certamente si evolve col tempo e col progresso. Personalmente non so se ci sia un upper bound alla crescita, ma se c’è io proprio non immagino in cosa possa consistere.

    • Giacomo Mariotti

      Quanto al punto “occidente vs resto del mondo” è vero che esiste una disparità paurosa, ma non vedo l’occidente come un padrone crudele che impedisce lo sviluppo alle altre zone del mondo. È evidente che fa i suoi interessi anche in modo diciamo “spiacevole” per usare un eufemismo; tuttavia è altrettanto evidente che altri fattori (ambientali, sociali, culturali ecc) hanno influito sull’attuale assetto globale.
      E nonostante tutto l’esempio dei Brics conferma che in ultima analisi l’occidente non ha affatto l’egemonia sul resto del mondo. Il quale piano piano -ma mica tanto! – sta cambiando radicalmente i rapporti di forza.

      Comunque, non mi sentirei di dire che queste tematiche influiscano particolarmente nell’attuale crisi del debito europeo; la quale ha radici molto più banali. Mi piacerebbe però sapere come la vedi al riguardo!

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