La medaglia dell’amicizia – La storia di Shuhei Nishida e Sueo Oe alle Olimpiadi del 1936


I fiori, in Giappone, sono il massimo complimento che si può fare a una persona senza parlare. Ce ne sono tre che, per i nipponici, sono fondamentali: il ciliegio, il loto e il crisantemo. Hanno tutti una valenza speciale, un significato unico e preciso.

D’altronde, il Paese del Sol Levante è un posto unico. La sua capitale, Tokyo, altrettanto. Di motivi ce ne sarebbero tanti, non fosse che, nel Novecento, la capitale dell’arcipelago ha flirtato quattro volte con i Giochi olimpici. Di queste, ha ottenuto il gran ballo una volta sola (nelle Olimpiadi di Tokyo 1964) vedendosi revocata un’edizione e vedendo spostata quella di Tokyo 2020 al 2021.

Nel corso di questo Speciale dedicato al retrogusto, vale la pena parlare di Tokyo 2021 in un modo particolare: con un salto indietro nel tempo.

Verso Tokyo 2021: una storia da non dimenticare

Ciliegio, loto, crisantemo. Tre fiori simbolo di una città, un Paese, una cultura. Tre fiori che legano l’edizione che c’è stata, quelle che non ci sono state e quella che dovrà essere. Tre simboli: esistenza, cammino e immortalità.

Per ora, perché il virus è infame e potrebbe abbattersi ancora su quella che sembra una nazione maledetta per la kermesse a cinque cerchi. Nell’attesa di capire come andrà, c’è una storia legata a questa terra lontana e alle Olimpiadi che è bello ricordare.

È una storia di amicizia, di sport, di destini che si incrociano e di simboli che sfidano il tempo. Non comincia nella terra dei samurai, però, ma a Berlino. Eppure, l’anima giapponese la permea completamente.

Sueo Oe e Shuhei Nishida in posa

Da sinistra, Sueo Oe e Shuhei Nishida (Pubblico dominio)

Ma prima, un ulteriore passo indietro.

Le Olimpiadi in Giappone: storia di una lunga attesa

Ci mise tanto, l’Olimpiade, ad arrivare in Giappone. In generale, ci mise quasi ottant’anni ad arrivare in Asia, se parliamo dell’Era moderna. La sacra fiamma di Olimpia dovette fare molti giri e attraversare molti posti prima di posarsi sulle foglie di ciliegio, simbolo dell’eterno ritorno di tutte le cose. Come eterna, si può dire, sia stata l’attesa dei Giochi per Tokyo.

Cosa ha fermato l’espansione dei Giochi olimpici estivi fino all’Estremo Oriente? La risposta è banale ma, al tempo stesso, atroce: la guerra. Sì, perché la data originale dell’esordio nella terra del Sol Levante dell’espressione massima dello Sport sarebbe dovuta essere il 21 settembre del 1940. Il luogo: gli splendidi giardini Komazawa, sede del nuovo (per l’epoca) stadio da 100mila spettatori.

Altri tempi: si veniva dai trionfalismi scenici e dalle avanguardie di Berlino ’36, l’edizione più moderna dell’Era moderna delle Olimpiadi. Il Giappone avrebbe voluto andare oltre, avrebbe voluto dimostrare di non essere da meno degli altri membri dell’Asse. D’altronde, mancava loro il gran acuto in campo sportivo: detto di Berlino quattro anni prima, anche l’Italia aveva conquistato gli ultimi due Mondiali di calcio e un oro olimpico e si apprestava a essere favorita anche a Tokyo 1940. I nipponici, invece, avrebbero voluto uscire dalla loro ruota e far mostra del loro status di potenza mondiale.

Ci si mise un contenzioso con la Cina, nel 1937, a fermare la volontà del Sole Rosso. Una diatriba iniziata per un “incidente”, come lo chiamano dalle parti di Tokyo; o una vera e propria “guerra”, come rispondono da quasi un secolo da Pechino.

Il ciliegio, l’esistenza: la morale, prima della storia

La certezza è che scoppiò una guerra, che è sempre un male assoluto. In questo caso, anche; ma le guerre celano – tra trincee e bombe, tra dispacci e invasioni – delle storie. Anche di Sport (la S volutamente maiuscola) perché questa è una storia che insegna, è figlia di una rinuncia, di una cancellazione, ma è anche la storia di un’amicizia e un’impresa sportiva leggendaria. Di un legame talmente forte e – lasciatemelo dire – edulcorato oggi, che fa bene riprenderla.

Paradossalmente, l’episodio risale a prima delle Olimpiadi di Tokyo 1940 e non ha a che vedere né con le edizioni di Tokyo 1964 né con quelle di Tokyo 2020. O forse sì.

È una storia di simbologia e messaggi, di ciò che è stato, di ciò che poteva essere e di ciò che sarà, proprio come quelle tre edizioni destinate alla città anticamente chiamata Edo.

Il logo delle Olimpiadi di Berlino del 1936

Il logo delle Olimpiadi di Berlino del 1936 (Pubblico dominio)

Berlino 1936: Shuhei Nishida e Sueo Oe

Siamo a Berlino, 1936. Nella disciplina del salto con l’asta si sta disputando la finale. Nel terzetto che si gioca l’alloro massimo e l’immortalità sportiva ci sono due ragazzi giapponesi: uno di mestiere fa l’ingegnere alla Hitachi, capello ordinato, mascella decisa. L’altro odora ancora di università, ha 22 anni e il futuro sembra essere suo.

Uno si chiama Shuhei Nishida e l’altro Sueo Oe. Sono entrambi dei talenti, metodici, precisi, puliti. Arrivano a giocarsi il secondo posto; la misura è la stessa per entrambi: 4,25 metri. Che si fa?

L’americano Earle Meadows era già sicuro di aver vinto, ma c’era da attribuire le altre due medaglie. I giudici si avvicinano alla coppia giapponese e spiegano che bisogna procedere con ulteriori salti, finché uno di loro non salta una misura più alta rispetto all’altro.

Entrambi, voce ferma, all’unisono, dicono di no. Siamo amici, non ci giochiamo una medaglia, siamo già contenti di dividere il podio così. Grazie.

Sueo Oe (a destra) e il salto di Shuhei Nishida in un collage

Sueo Oe (a destra) e il salto di Shuhei Nishida in un collage (rielaborazione: Marco Frongia)

Lungo conciliabolo tra giudici, atleti e squadra nipponica. Alla fine si stabilisce che la medaglia d’argento andrà arbitrariamente a Nishida, perché ha centrato la misura con un salto in meno di Oe. Se andate a ripescare la foto del podio, un raggiante Meadows si lascia andare a un saluto militare sorridendo, mentre gli altri due personaggi sono seri, composti, guardano in alto senza troppa convinzione.

Il loto, il cammino di Sueo Oe

La seconda parte della storia sembra già essere scritta. Sì, perché per tutti quella scena si sarebbe ripresentata quattro anni più tardi, quando i due ragazzi nipponici avranno reso uniche le Olimpiadi di casa, quelle di Tokyo 1940, le prime in Asia. I due si giocheranno l’oro e saranno finalmente sorridenti sul podio, e chissenefrega chi dei due sul gradino più alto: cadranno fiori di loto dal cielo per omaggiarli, rappresentando quell’ascesa verso il Paradiso, in questo caso sportivo, come recita l’iconografia di quel bocciolo.

No, non succederà mai. Quell’incidente del ponte Marco Polo – che decretò, di fatto, l’inizio del Secondo conflitto mondiale – costrinse anche i due a presentarsi in caserma per le visite mediche. Passate, elmetto e fucile e via, in combattimento. Nishida se la cavò e passò quegli otto anni indenne. Oe, purtroppo, partecipò alla missione parallela di Pearl Harbour, quella di Wake Island. Ancora una volta, un salto di troppo rispetto all’amico.

Questa volta, Sueo non perde una medaglia, ma la vita. A 23 anni, viene falciato dal fuoco nemico. Fiori di loto. Il Paradiso, ahinoi, è raggiunto per davvero.

I crisantemi, l’immortalità: le due medaglie di Shuhei Nishida e Sueo Oe

Il colpo è grande per Nishida. Il caro amico di una vita (sportiva) non c’è più. Mi piace pensare che una volta finito quell’inferno, Shuhei, saputa la notizia, sia corso fino a casa e abbia aperto quella scatola in cui teneva solo gli oggetti più preziosi per lui. Sogno che Shuhei abbia preso quella medaglia, quella di Berlino, ma non quella d’argento. Quella bronzo e argento.

Come? Sì, bronzo e argento. Perché quando l’amicizia va oltre tutto, oltre le decisioni ufficiali, oltre le distanze che impongono eventi così grandi rispetto a noi, oltre gli scontri che, in un’amicizia, si possono creare, il risultato è una medaglia che ne contiene due, dove la metà di bronzo si bacia con quella d’argento.

La medaglia dell'amicizia, metà in argento e metà in bronzo

(Credits: Olympic channel)

Un simbolo, a testimoniare l’unione di una divisione, la forza dell’amicizia che – per sempre – sarà tra Shuhei Nishida e Sueo Oe. I due, di ritorno dalla Germania, avevano contattato un gioielliere e avevano fatto tagliare le due medaglie e se ne erano scambiate la metà, facendole unire in una unica, metà di bronzo e metà d’argento. Per sempre, sarebbero stati uniti, oltre il risultato. Perché i valori rimangono, i podi passano.

Shuhei guarda fuori dalla finestra, indossa la medaglia. Va sotto il crisantemo, simbolo di immortalità, del suo giardino e piange. Loro due, adesso, sono di nuovo insieme, scolpiti nella leggenda sportiva del Paese. Sipario.

Quattro Tokyo, un solo spirito

Questa storia, però, racconta molto di più. Racconta di una protesta silenziosa, mite, di grande forza e modernità. Un grido di libertà unico, un insegnamento che travalica le ere.

Sarebbe stato bello pensare di vederli tedofori alle Olimpiadi di Tokyo 1964, insieme accendere la fiamma olimpica. O che qualcuno ne ricordi le gesta alle prossime Olimpiadi, quelle di Tokyo 2021. Dove sarebbe bello che cadessero tanti crisantemi, mentre si omaggiano due ragazzi che hanno dato qualcosa al mondo, simboleggiato da quella medaglia e, proprio, da quel tipo di fiore, specie in Giappone: l’immortalità.

In questo caso, dell’amicizia. Dono prezioso, da ricordare. Per sempre.

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