Il retrogusto informe – Morphing e computer grafica nel cinema anni 90


Nel nostro passato recente di spettatori cinematografici esistono ricordi che più che prendere una forma definita, si dissolvono. Passati non troppo remoti fatti di ingenuità stilistiche e di passioni infantili che i nostri occhi saturi di immagini predigerite rinchiudono in cassetti con l’etichetta “bambinesco”.

Questo salvo occasionali recuperi che però, stranamente, non sono sufficienti a produrre una lettura filtrata da nostalgie alla moda. Le modalità del recupero di questo retrogusto, è il caso di dire, non si sono ancora pienamente formate e non sappiamo dire se mai lo saranno o se resteranno, più probabilmente, relegate alla loro materia informe di esperienze interstiziali, fatte di quella fluidità che il giudizio critico adulto non è più in grado di restituire, incasellato nella “norma” della nostalgia alta, legittimata e riconosciuta.

Queste immagini stanno lì, quasi a voler negare quel distinto senso di nostalgia che la nostra cultura della preservazione porta con sé. Il tentativo di conservare forme fin troppo fluide di esperienze embrionali. Cerchiamo allora di fissare o conferire, è il caso di dire, dei confini almeno ad una di queste: il morphing nel cinema.

Fluidi vitali, fluidi mortali: morphing al cinema

1997. Al cinema qualche sguardo si è fissato su di una figura, non nuova per verità e forse, come vedremo, già cara alla sci-fi: un “flubber”, come la sostanza al centro del film omonimo.

Pellicola non di certo di grande successo oggi perlopiù annessa a una certa produzione usa e getta del decennio, seppur con un buon cast artistico e tecnico. Flubber – Un professore tra le nuvole vedeva Robin Williams nel ruolo del professore, un regista noto solo per Miracolo nella 34ª strada (Les Mayfield), Dean Cundey alla fotografia e Danny Elfman alle musiche: non sono certo i nomi quelli che, ancor più se visto in tenera età, possiamo oggi ricordare di quella tutto sommato leggera esperienza di commedia per bambini, quanto l’oggetto fluido e amorfo che dà il nome al titolo.

Una scena di Flubber: Robin Williams prova sulla sua faccia l'elasticità del Flubber. Un grande esempio di morphing nel cinema anni 90

Flubber (Credits: Disney)

Il flubber era una sorta di verde blob benigno, pasticcione e divertente, la cui volontà era dettata dalla pura performance della fluidità gelatinosa del suo slime che poteva assumere sullo schermo qualsiasi forma dando libertà creativa per ogni gag i creatori volessero fagli compiere. Flubber è la versione cartoon e vitale di quello che, cambiando di senso, può essere il fluido mortale di Blob. Oppure, ancora, una versione divertente e divertita dello stesso effetto speciale in cgi usato pionieristicamente da James Cameron per il suo The abyss.

Entrambi i film appena citati si trovano poi ad incorniciare quella forma di metallo liquido che è indelebile nella memoria e nella storia degli sviluppi della computer generated imagery: il T-1000 di Terminator 2 – Il giorno del giudizio.

Definire la forma

La carrellata di esseri mutaforma citati ci risulta utile per iniziare a delimitare il confine di una figura che, un po’ come Flubber, deforma per sua natura i confini, può prendere nomi diversi e che oggi sembra rimasta ai margini del dibattito tecnologico così come della cosiddetta “nostalgia analogica” e che forse faticheremo a far rientrare anche nella più ampia categoria di “nostalgia mediale” tout court: il morphing.

Un chiarimento terminologico: non vogliamo qui usare la categoria in senso ristretto, legandola esclusivamente alla definizione canonica dell’effetto di trasformazione fluida e senza soluzione di continuità tra due immagini di forma diversa. È invece il campo culturalmente allargato definito dal teorico di film studies Scott Bukatman a cui facciamo riferimento: “ll morphing offre la promessa di una trasformazione infinita e l’opportunità di creare, disfare e ricostruire liberamente se stessi”.

Nuova matrice: cinema post morphing

Facciamo un passo avanti. 1999, esce Matrix, la rivoluzione degli effetti speciali. Il digitale è pervasivo, omnicomprensivo e tematicamente rilevante, applicato in relazione a un postmodernismo che mescolando il cinema di arti marziali all’action hollywoodiano passa per il terreno di un cyberpunk ormai crepuscolare.

Cosa interessante per l’economia del nostro discorso è il fatto che, fin dalla prima sequenza in “bullet time” il corpo messo in scena è plastico nel senso vero del termine. La macchina da presa (non ancora virtuale ma con la stessa funzione di un occhio disincarnato) ruota attorno al personaggio di Trinity rendendo un effetto di sospensione temporale e spettacolarizzando al contempo l’azione in un modo inedito, all’epoca comune forse solo al videogiocatore.

Questa visione ci ha portato nel cuore di quella dialettica che si può sintetizzare, usando le parole della studiosa e critica statunitense Vivian Sobchack: “Così, allora come adesso, la questione significativa riguardava meno la nostra fede nella realtà dell’immagine dal vivo che la nostra meraviglia”.

Fotorealismo al cinema: andata e ritorno

La ricerca dell’effetto speciale come elemento di attrazione spettacolare è a un punto di svolta nel raggiungimento di una visione fotorealistica. Certo, Matrix cerca un dialogo con le istanze dei generi, le suggestioni filosofiche e una nuova esperienza spettatoriale in cui, come è stato notato, la sensazione non è più solo cinematica ma scultorea. Ma quello che ne consegue per i “film di attrazioni” del decennio post-Matrix fino a ora è la ricerca di un fotorealismo esasperato.

La pervasività dell’effetto speciale che annulla la sua stessa visibilità e vuole, in sostanza, scomparire in una immagine di volta in volta realistica o fantastica, credibile o impossibile. Matrix rivela forse una questione sottesa a tutto il cinema delle attrazioni digitali: cosa subentra allo stupore iniziale di una nuova tecnologia quando la novità svanisce nella banalità del quotidiano?

Il corpo del morphing disinvolto

È nel decennio appena precedente che, con la figura del morphing, vediamo invece disseminarsi un uso delle prime capacità dell’elaborazione digitale delle immagini. Un uso spesso disinvolto, ai limiti del parodistico e dagli esiti estetici oggi difficilmente giustificabili se non in casi delimitati (per esempio con le produzioni volutamente low budget Asylum). Il morphing è, nella genesi della computer grafica, l’esatto opposto della mimesi, della contraffazione data dalla natura manipolatoria dell’immagine sintetica.

Al contrario. Vedere Wayne Knight gonfiato come un palloncino per poi scorrazzare in aria come un Looney Tunes in Space Jam non fa altro che attivare nello spettatore un’azione di riconoscimento dell’effetto, un’esasperazione iperbolica del corpo cartoonizzato. Non a caso il morphing irrompe nel cinema di sci-fi in maniera quasi inaspettata, con soluzioni legate alle transizioni di stato della materia dei corpi, che si fa spesso fluida, instabile, liquida.

La trasformazione del primo goomba in Super Mario Bros

Super Mario Bros (Credits: Allied Filmmakers)

Nuovi corpi riflessi

Questo accade se pensiamo ai già citati film di Cameron, ma anche a esempi più volgari, apparentemente meno significanti, come il Koopa di Dennis Hopper prima manipolato in espressioni rettiloidi e poi definitivamente sciolto, liquefatto, nel finale di Super Mario Bros.

Questo accade contemporaneamente alla presa di coscienza, sul comune terreno dei rettili giganti, da parte di un lanciato Steven Spielberg. Sono le possibilità fotorealistiche del digitale, quelle di generare esseri totalmente in cgi e totalmente credibili; possibilità fino a quel punto permesse solo dalle tecniche di animatronica e animazione stop motion. È il rinnovato “cinema theme park” del decennio: dove morphing e computer grafica in generale sono state utilizzate per far sembrare reale il fantastico trasformando nel processo le tecnologie e le nuove industrie cinematografiche.

In questo cinema che predilige le capacità di mostrare ogni forma, il morphing si trova investito della capacità di mettere in crisi la forma stessa. La maschera indossata da Jim Carrey in The Mask ne porta ad amplificare le performance corporali fino a disincarnare la sua stessa figura. È a questo punto che si percepisce il sé come effetto.

Il morphing applicato a The Mask, celebre film del cinema anni 90

The Mask (Credits: New Line Cinema)

Nuovi spazi riflessi

È sempre il corpo che si trova al centro dello sguardo. Del cinema del decennio anni Ottanta e della sua messinscena dei corpi dirà l’americanista Franco LaPolla “paradossalmente, più si riscopre il corpo più ci si allontana da esso”. Lamentando la mancanza o, per meglio dire, la riduzione dello spazio fra osservato e osservatore, l’instaurarsi di una dimensione televisiva delle immagini, dirà poi che si ha come “la stessa sensazione che ci coglie quando, da qualunque distanza noi si stia osservando, ci troviamo di fronte a una superficie”.

E le immagini riflettenti del metallo liquido non possono che ricondurci quindi a un’idea di spettacolarizzazione, giocosa e compiaciuta, che annulla programmaticamente le distanze col visibile. Come fa notare Angela Ndalianis parlando dell’installazione tematica T2 3-D: Battle Across Time: “le barriere percettive che separano lo spazio “reale” del pubblico dallo spazio “illusionistico” dello schermo cinematografico sembrano magicamente crollare”, ed è a questo livello che l’azione del morphing agisce sul corpo: “l’immagine trasformata del T-1000 lavora all’unisono con questa tecnologia per far crollare il fotogramma del film che separa l’illusione dalla realtà”.

Altro esempio di morphing nel cinema anni 90: il T-1000 di Terminator 2

(Credits: T2 3D – Battle across time)

Il morphing come figura dell’illusione spettacolare concentra in sé anche le capacità di rendere esplicito il suo processo trasformativo, il suo essere sempre il prodotto un po’ naif della logica simulativa. Si aprono quindi nuove necessità. Per interrogare le mutazioni dell’immagine siamo al punto in cui, citando il sociologo Fausto Colombo, “la realtà solida che per secoli ha fatto da tappeto rassicurante sotto i piedi degli uomini si è dissolta, lasciando spazio a fantasmi simulativi e simulatori”.

E i fantasmi, in quegli anni di fine secolo, assomigliavano a Casper.

 

Per approfondire il tema del morphing al cinema:

Meta Morphing: Visual Transformation and the Culture of Quick Change, a cura di Vivian Sobchack

Analogue Nostalgia and the Aesthetics of Digital Remediation, di Dominik Schrey

The Cinema of Attractions Reloaded, a cura di Wanda Strauven

Matters of Gravity, di Scott Bukatman

Ombre Sintetiche, di Fausto Colombo

Sogno e realtà americana nel cinema di Hollywood, di Franco La Polla

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