Al di là del gusto – Il significato dell’umami


“Giuro che stavolta è l’ultimo!” e invece giù con un’altra scaglia di formaggio grana. L’esperienza del gusto umami è, a dir poco, ultra sensoriale; dargli un significato è ultra complicato! Infatti… Continuiamo a masticare e impastare il nostro ennesimo bel boccone di grana e intanto cerchiamo una giustificazione plausibile a questo gusto irresistibile: “È che è così… è così…”

È così umami!

Occidente e umami: un gusto senza significato

Il significato dell'umami, quinto gusto base, è stato accettato solo recentemente nel mondo occidentale

Saporito? No, umami! (Credits: María Fernanda Morales, Unsplash)

Oltre che di difficile interpretazione, l’umami è anche di difficile traduzione. Questa parola è infatti di origine giapponese e non ha un corrispettivo inglese né tanto meno italiano: spesso viene tradotto con i termini sapido e saporito – il che la dice lunga anche sull’importanza che la cucina occidentale dà a questo gusto.

Nonostante la scoperta dell’umami sia avvenuta a inizio Novecento, è dovuto passare quasi un intero secolo prima che la cultura occidentale lo accettasse come gusto base (insieme a dolce, salato, amaro e aspro).

Con l’umami, infatti, ci siamo comportati un po’ come san Tommaso, “se non vedo, non credo”. L’abbiamo riconosciuto solo quando, nel 2002, sono stati scoperti sulla nostra lingua i recettori responsabili della sua percezione.

All’origine del gusto

È il 1908 e il chimico giapponese Kikunae Ikeda è convinto che nei cibi saporiti ci sia un gusto diverso dai soliti quattro. Scopre infatti che il sapore fondamentale del dashi, una tipica zuppa di alghe e pesce, è dovuto a una particolare molecola: il glutammato. E, cercando di dare un senso a questo peculiare gusto, lo chiama proprio umami.

Il glutammato è un aminoacido ed è uno dei più abbondanti in natura: rappresenta circa il 40% degli aminoacidi nelle proteine vegetali e circa il 15% in quelle animali. Oltre che all’interno delle proteine, nei cibi si può trovare sia in forma libera sia in forma di sale – quello più diffuso è il glutammato monosodico.

È proprio la produzione dell’Msg (Mono Sodium Glutamate) che viene brevettata dal professor Ikeda. Nel 1909, infatti, nasce il primo barattolino di glutammato monosodico, umilmente battezzato Ajinomoto cioè All’origine del gusto.

Il dashi è un brodo di alghe e pesce; studiandolo il chimico giapponese Ikeda ha capito il significato del gusto umami

Il segreto del gusto di molti piatti giapponesi è il dashi (Credits: Markus Winkler, Unsplash)

Da allora il significato del gusto umami è stato compreso sempre più a fondo: oltre al glutammato, particolarmente abbondante in alcune alghe, esistono altre molecole in grado di stimolarlo. Infatti, studiando la composizione di cibi molto saporiti, sempre i giapponesi hanno identificato un’intera classe di composti responsabili del gusto umami: i 5’-ribonucleotidi.

Nel 1913, il protetto di Ikeda, Shintaro Kodama, scopre che il katsuobushi – tonnetto striato essiccato, fermentato e affumicato – è ricco di 5’-inosinato. Nel 1957 il dottor Akira Kuninaka dimostra che il 5′-guanilato è il principale componente umami dei funghi shiitake.

Cinque gradi di umami

Nonostante la scoperta tutta orientale e la fama occidentale di “schifezza chimica”, la cucina italiana utilizza ingredienti ad alto contenuto di glutammato. Guarda caso, i livelli massimi si riscontrano in cibi del cui gusto andiamo proprio fieri e che quindi mettiamo un po’ ovunque.

Una semplice pasta al pomodoro con una grattugiata di parmigiano è uno dei piatti più umami che potremmo mai assaggiare! 100 grammi di pomodoro contengono quasi 250 milligrammi di glutammato. 100 grammi di parmigiano con stagionatura media ne hanno più di 1500 milligrammi – in pratica contengono più glutammato che altro!

Questo formaggio è l’unico ingrediente di uno dei più celebri capolavori dello chef italiano Massimo Bottura (1° miglior ristorante al mondo nel 2018). Cinque diverse cotture, cinque diverse consistenze e cinque diverse stagionature; per usare parole sue “cinque gradi di umami”.

La stagionatura: più dura più il gusto è umami

Descrizione non casuale, quella dello chef: c’è un legame diretto tra stagionatura e gusto umami di un alimento. La stagionatura è un processo che trasforma profondamente i cibi: a livello chimico una delle reazioni più importanti è la degradazione delle proteine.

Per sentire il significato del gusto umami sulla propria lingua: assaggiare formaggi sempre più stagionati . Provare per credere

Diverse stagionature: diversi gradi di umami (Credits: Markus Winkler, Unsplash)

Le proteine, coerentemente con quanto detto poco fa, sono composte dagli aminoacidi – 20 aminoacidi diversi compongono tutte le proteine possibili e immaginabili. Durante la stagionatura, per esempio dei formaggi e dei salumi, alcuni microrganismi addetti ai lavori rompono le proteine in tanti pezzi più piccoli. Ormai sappiamo che questi piccoli pezzi sono gli aminoacidi, tra i quali c’è il glutammato.

Ma… a livello pratico, che cambia tra avere un formaggio ricco di proteine e uno ricco di aminoacidi? Proviamo a fare un esperimento culinario: assaggiamo formaggi via via più stagionati. Nell’ordine: un cucchiaino di crescenza, un pezzo di fontina e una scaglia di parmigiano 48 mesi (raro e costoso!).

Dovremmo renderci conto che il sapore nella nostra bocca si fa sempre più intenso. Ecco la risposta: le proteine non hanno gusto, gli aminoacidi sì. Lo stesso esperimento può essere fatto con il prosciutto crudo. O anche con i pomodori, in cui il processo in questione è la maturazione: quando sono acerbi le proteine sono intatte, maturando aumentano gli aminoacidi liberi e di conseguenza il gusto.

Perché sentiamo gli aminoacidi?

Durante una riunione del Food and Container Institute dell’Esercito degli Stati Uniti d’America nel 1948, scienziati e produttori cercavano di rendere migliore il cibo preparato per le truppe grazie al glutammato monosodico ed ecco come hanno descritto il sapore di questo aminoacido: “Il glutammato ha la capacità di stimolare i nervi della bocca e della gola per produrre la sensazione nota come soddisfazione”.

Ma in che modo e perché percepiamo un aminoacido come un “gusto desiderabile”? Ora che il significato del gusto umami comincia a diventarci chiaro, possiamo cominciare a complicarci la vita. Parleremo della cosiddetta via gustativa – che porta l’informazione umami dalla nostra bocca al nostro cervello – e del perché questo gusto si sia sviluppato durante l’evoluzione.

Le vie del gusto non sono infinite

Sulla nostra lingua sono presenti circa ottomila papille gustative, ciascuna delle quali contiene tanti e diversi recettori. Esistono recettori specifici per ognuno dei cinque gusti di base: i recettori per il salato, per esempio, riconoscono il cloruro di sodio (sale da cucina), quelli per il dolce il glucosio e così via.

A livello biochimico, quando riconosciamo un gusto significa che la molecola corrispondente si è legata al suo recettore. Nel caso dell'umami la molecola è il glutammato

A ogni gusto il proprio recettore (Credits: Alex Guillaume, Unsplash)

Per immaginare cosa possa voler dire che un recettore riconosce una particolare molecola, pensiamo a una serratura e alla sua chiave. Consideriamo il caso dell’umami e una bella fetta di prosciutto crudo: ogni molecola di glutammato che contiene è una chiave. Una volta in bocca, ciascuna chiave troverà una serratura che apre perfettamente – il suo recettore.

Girata la chiave, la strada oltre la porta prosegue fino al cervello. Infatti, i messaggi relativi al gusto vengono mandati dalla bocca al cervello tramite tre nervi: uno porta le informazioni dalla parte anteriore della lingua, uno dalla parte posteriore e uno dall’epiglottide.

Circa a metà strada, i tre nervi si uniscono in un solo nervo che arriva poi nel bel mezzo del nostro cervello, dove si trova la corteccia gustativa. Qui si trovano cellule nervose specializzate nel rispondere a ogni gusto.

Significato evolutivo del gusto umami

Avere un sistema di riconoscimento così specifico e speciale, evolutivamente parlando, non è cosa da poco. Da lungo tempo, agli scienziati è chiaro perché siamo in grado di percepire quattro gusti base su cinque.

Dolce vuol dire zuccheri, carboidrati e quindi energia per il nostro corpo. Salato vuol dire minerali necessari per mantenere l’equilibrio dei fluidi corporei. Aspro e amaro sono indice di potenziale pericolo – infatti tendiamo a non mangiare frutta acerba o cibi in decomposizione.

E umami? Dal punto di vista evolutivo, che significato ha il gusto umami? Secondo l’ipotesi più accreditata questo gusto così saporito si sarebbe evoluto per permettere al nostro corpo di percepire la presenza degli aminoacidi – fondamentali per la sopravvivenza di tutti gli esseri viventi.

Una prova a favore di questa ipotesi è la seguente: il glutammato rappresenta più del 50% degli aminoacidi liberi nel latte materno. Per i neonati questo liquido è l’unica fonte di vita; quindi probabilmente durante l’evoluzione è diventato sempre più umami e di conseguenza appetitoso e desiderabile.

Taste, flavor and feel

Se da una parte è vero che siamo prima in grado di riconoscere l’umami e poi di camminare, è altrettanto vero che distinguere questo gusto non è facile. L’umami porta con sé un grande paradosso: rende molti cibi appetibili ma non ha particolare sapore.

Sul sito dell’Umami Information Center si possono leggere le testimonianze di chef che lo hanno testato: “Gusto delicato e sottile. Si diffonde sulla lingua, rivestendola completamente. Un gusto persistente. Una sensazione appetitosa”.

Per molto tempo il significato dell’umami è stato confuso: non un gusto, ma una sensazione

“Dove è finito l’umami?” (Credits: life is fantastic, Unsplash)

A ragion veduta, quindi, per molto tempo il significato dell’umami è stato confuso: non un gusto, ma una sensazione. Tra le sue principali caratteristiche, infatti, ci sono pienezza e persistenza.

L’umami è spesso descritto come un sapore che “si diffonde sulla lingua, rivestendola”. Esperimenti sulla geografia dei recettori gustativi hanno dimostrato che i sapori dolci e salati sono percepiti più intensamente sulla punta della lingua, mentre l’umami è percepito ovunque.

Per dimostrarne la persistenza sono stati fatti, invece, esperimenti culinari. I partecipanti dovevano assaggiare, una alla volta, soluzioni con glutammato, sale da cucina e acido tartarico (componente aspra del vino), sputarle e confrontare l’intensità del gusto lasciato in bocca.

Mentre i gusti salato e aspro svanivano presto, l’umami persisteva per diversi minuti.

Ciò suggerisce un altro significato del gusto umami: ha un impatto importante nel generare il retrogusto di un cibo. Quindi nel determinarne il godimento generale.

Il glutammato, la chiave del piacere

Eppure per molto tempo l’opinione più diffusa è stata questa: “Il glutammato fa male”. Guai a comprare un dado da brodo che dichiarasse di contenere glutammato monosodico: preferiamo di gran lunga quello biologico con proteine liofilizzate o con estratto di lievito. Che poi tali diciture significhino aminoacidi e quindi glutammato meglio non saperlo…

Finalmente nel 2017 l’Efsa (Eupean Food Safety Authority) ha valutato nuovamente la sicurezza dei glutammati utilizzati come additivi alimentari e ha calcolato una dose giornaliera ammissibile di 30 mg/kg di peso corporeo. Facendo qualche calcolo, possiamo star tranquilli e grattugiare sulla pasta tutto il formaggio che ci piace.

E poi possiamo dirlo: una volta legato al suo recettore, il glutammato è la vera chiave del piacere. E l’umami è il piacere stesso.

Ed ecco perché la pappa al pomodoro “è un ca-po-po-po-po-po-lavoro”.

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