
Plasmare gli incubi – La vita di Stephen King nascosta nei suoi libri
In molti possono pensare che Stephen King sia nato con i suo primo romanzo già pronto per essere dato in pasto a milioni di famelici lettori. Tra le pagine dei suoi libri, se osservati con la giusta lente, l’autore si presenta raccontandosi si nei propri romanzi. Troviamo molti degli avvenimenti che hanno segnano profondamente il carattere dello scrittore. Come un retrogusto, o (se preferite) un’eco di ciò che è stato il suo passato.
Cominciamo questa piccola esplorazione nel passato di Stephen King, tentando di scoprire cosa lo ha reso ciò che è oggi.
L’infanzia difficile di Stephen King
È il 1949 quando il padre esce per una delle sue passeggiate, per non tornare più. La famiglia, composta dalla giovanissima madre Nellie Ruth, il fratello maggiore adottivo David Victor e Stephen, che all’epoca ha solo due anni.
Una delle doti di King è quella di camminare tra le ombre del suo passato e ricaricare la penna con esse. Così, quando deve introdurre i due dei protagonisti di Le notti di Salem, lo fa facendoli spostare da un luogo all’altro degli Stati Uniti. Ovvero ciò che fu costretto a fare insieme alla sua famiglia dopo l’abbandono da parte del padre.
Il dolore di questa terribile esperienza impregna le pagine di altri suoi capolavori in cui spicca il difficile rapporto tra padre e figlio, come Shining, It, Christine la macchina infernale e Cujo. Dovranno però attendere ancora un po’ di anni prima di diventare successi internazionali.

Una scena di It (Credits: New Line Cinema)
Le prime pubblicazioni
Nel 1966, un diciannovenne Stephen King pubblica il suo primo racconto, intitolato I was a teenage grave robber sulla fanzine Comics Review, di cui è possibile trovare una parziale traduzione italiana solo in appendice al volume di Bev Vincent Tutto su Stephen King (Sperling & Kupfer 2010). Questa è l’unica storia scritta da King per una fanzine.
Nello stesso anno si diploma per poi studiare letteratura presso l’Università del Maine, a Orono. Così come nelle scuole superiori, King trova il suo spazio in una rubrica sul giornale universitario, Maine Campus, intitolata King’s Garbage Truck, ovvero Il camion dell’immondizia di King.
Oltre a questo, però, Stephen lavora anche durante le vacanze estive per potersi pagare gli studi. Un anno dopo la pubblicazione sul fanzine, per la prima volta riesce a vendere per 35 dollari un suo racconto, intitolato The Glass Floor (Il pavimento di vetro), pubblicato per la rivista Startling Mystery Stories da Robert Lowndes.
Dopo essersi laureato a 23 anni, King ottiene il certificato per l’insegnamento nelle scuole superiori, ma per circa un anno è costretto a svolgere le più diverse occupazioni: benzinaio, bibliotecario, inserviente in una lavanderia industriale di Bangor, spazzino.
Stephen King e le dipendenze

Una scena del film Misery non deve morire (Credits: Columbia pictures)
Con il romanzo Revival, possiamo trovare lo strascico delle dipendenza di King nel suo protagonista, Jamie. Il personaggio diventa dipendente dalle droghe dopo un incidente con la moto, mentre l’autore ha avuto problemi di droga fin dal college.
Nonostante l’abuso di cocaina, riusciva nascondere dietro una fragile maschera la sua dipendenza. Come lo stesso Stephen King afferma in un’intervista su Rolling Stone: “Potevo alzarmi, preparare la colazione ai bambini e portarli a scuola. Ed ero forte: avevo un sacco di energia. Altrimenti mi sarei ucciso. Ma nei libri si è notato, dopo un po’. Misery è un libro sulla cocaina. Annie Wilkes è cocaina. Era la mia fan numero uno”.
Non incidendo in alcun modo con la scrittura, la sua tossicodipendenza viene a lungo sottovalutata. Solo nel 1987 l’intervento di familiari e amici dà inizio al faticoso processo di disintossicazione, che durerà oltre un anno. Ma Stephen King non è solo quello ed è il duro lavoro e l’amore verso la scrittura che deve essere valorizzato.
Il primo successo di Stephen King
In quel tempo Stephen aiutava le finanze familiari vendendo racconti a riviste maschili come Cavalier. Dopo tre precedenti tentativi falliti, la svolta arriva all’inizio del 1974, quando Stephen King, grazie all’editor della Doubleday Bill Thompson, riesce finalmente a farsi pubblicare il suo primo libro da un editore. Il titolo di quel romanzo risuona ancora adesso.
Avete indovinato? Si tratta di Carrie, una storia che per l’autore doveva essere solo un racconto, e, peraltro, destinato al bidone della carta. La moglie Tabitha però lo recupera dall’immondizia, suggerendo al marito di provare ad ampliarlo. La casa editrice Doubleday acquista il romanzo per soli 2500 dollari.

La scena più iconica di Carrie di Stephen King, qui nel remake del 2013 (Credits: Mgm)
Carrie passa inosservato in edizione rilegata, ma ha un enorme successo nell’edizione economica, superando il milione di copie vendute. Arriverà anche la vendita dei diritti cinematografici: un affare da 400mila dollari. Grazie ai ricavi derivati anche dalla trasposizione diretta da Brian De Palma, King abbandona l’insegnamento e (per sua e nostra fortuna) può finalmente dedicarsi a tempo pieno alla scrittura.
Lo stesso King non ricorda esattamente come nacque la storia di Carrie, ma sappiamo per certo che la protagonista del romanzo fu ispirato da una compagna di scuola e una studentessa dell’autore. Fu una ex-collega della lavanderia dove lavorava King a ispirarlo per la creazione della fanatica madre di Carrie. Ancora una volta, i tanti e variegati ricordi del suo passato diventano inchiostro sulle pagine.
Parlare con gli incubi
Attraverso le sue storie, Stephen King si racconta, svelando a tutti un segreto: ognuno di noi è una storia. Leggere dà la possibilità di ritrovarsi, e scrivere permette di trasformare i propri ricordi, dando loro una forma diversa. E tra i propri ricordi, King sceglie spesso quelli più traumatici. Qualcosa a metà tra l’autoanalisi e la condivisione dei propri demoni con il lettore.
L’innata capacità di Stephen King, infatti, non è solo quella di camminare nell’ombra, tra gli incubi: è quella di parlare con loro. Di riuscire ad ascoltare la propria paura senza fuggire. E plasmarla.
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