Il glamour fotografico e la pienezza d’un “vedo/non vedo” sulla misura


Per Barthes, la moda costituisce un fenomeno socioculturale. Ma quella sarebbe tipica del mondo massificato. Ai nostri giorni, succede che il potere multimediale miri a controllare tutti i “gusti” personali del singolo acquirente, nel mercato capitalistico. La moda fonda un preciso “linguaggio” (di comunicazione testuale), anziché un “corredo”, più o meno dettagliato, d’immagini massificate: grafiche, stampate, televisive, pubblicitarie ecc…

Barthes sostiene, apertamente, di ricostruire un orientamento strutturalistico. Per lui, le società umane sorgeranno nella misura in cui si deciderà di stabilire un dato (e molto dettagliato) sistema di regole culturali. Queste si farebbero più o meno universalizzanti (se accettate da un buon numero di persone). Nel caso di Barthes, anche la moda (confermando l’assunto precedente, di stampo strutturalista) si trova a “comunicare” in maniera tale da seguire (liberamente, nel suo settore) un testo di norme convenzionali. Ora, va precisata la fenomenologia della massificazione. La moda non si farebbe intendere (giungendo a condizionare, facilmente, il “gusto” di qualsiasi persona) mediante le sole immagini da propinare, bensì perché quelle hanno una “chiave malcelata” per concettualismo (già caricata, da se stessa, a strutturarsi).

(Credits: Paolo Meneghetti)

Nelle riviste fashion e glamour, il fotografo deve amalgamarsi con la modella, per l’interesse finale dell’osservatore. Saranno costruiti taluni “accorgimenti”, a “corredo” d’un gusto per la posa: la pelle scoperta, il vestito firmato, lo sguardo ammiccante, le gambe accavallate, la mano intascata ecc… Lo strutturalismo ci comunicherebbe che il fotografo sente, la modella riflette sulla sensazione (del fotografo), l’osservatore percepisce la riflessione (della modella) sulla sensazione (del fotografo).

È un continuo ri-entrare in un “corredo” dell’immagine. Ciò si realizza amalgamando il piacere della posa: ad esempio, da uno zoom improvviso al dito che sfoglia, e passando per la camicia sbottonata. La figura “mediana” è naturalmente la modella. Lei mette qualcosa “di suo”, sino a spostare il primo amalgama del fotografo verso l’integrazione col desiderio dell’osservatore finale. Dunque il “gusto” accade al climax ascendente. La modella esperta vuole integrarsi nello scatto, avendo pure di natura gli “strumenti” utili allo scopo, partendo dal corpo sinuoso. Grazie a lei, un “caricamento percettivo” materializza la semplice intuizione dei sensi che il fotografo segue, idealisticamente.

Per Epstein, l’errore di chi “snobba” sarà quello di mettere il buon gusto innanzi al buon cuore. Più professionalmente, quanto si può apprezzare l’impegno, sino a “sorvolare” sulla sua imprecisione od insufficienza? Chi osserva una fotografia di tipo glamour, rischia la… “distrazione”. Bisogna che si dosi la percezione della nude-art. Mostrando il non mostrabile, la volgarità contraddice l’impegno nella costruzione d’una posa. Forse serve una distrazione “inevitabile ma insufficiente”, per la quale si pensa al nudo guardando ad altro.

È il caso delle trasparenze, che dosano la materializzazione del corpo, conservando un minimo d’idealizzazione sul bello. Varrà un gusto a “corredo indeciso”, fra l’impulso al piacere personalizzato ed il “freno” dell’impalcatura fotografica. Il glamour invece non distrae l’osservatore. Veramente, bisogna che la bellezza femminile ci coinvolga. Nel glamour, la stessa modella posa con più sicurezza di sé. Conta il “potere” della seduzione. Esso s’avvicina forse al fashion, dove anche una modella non particolarmente bella può nascondere i suoi difetti, grazie alle firme costose. Il glamour è sempre d’una fenomenologia che piace impulsivamente, mentre il nudo fa meglio a cercare la fenomenologia che distrae astrattamente.

Distinguiamo il senso del gusto (che ci permette d’assaggiare e consumare gli alimenti) dal gusto più comune (che giustifica la bellezza attraverso la percezione di qualcosa… per il semplice vantaggio d’averla). Nel secondo caso, la razionalità dovrà appagarsi nell’esperienza di se stessa. Al giorno d’oggi, è conosciuta la figura professionale del degustatore. Qualcuno che vivrà una performance d’arte. Il degustatore esalta la sua percezione del buono… nel solo piacere d’averla. Così, gli alimenti sembreranno perfino belli. La “raffinatezza” del palato nascerebbe da una razionalità che s’appaghi nell’esperienza di se stessa, giustificandosi per la comunità.

(Credits: Paolo Meneghetti)

C’è l’interesse del fotografo verso il percepire una parola dell’immagine. La nude-art deve indurre lo spettatore ad interloquire con essa. Sarà il “corredo percettivo” per una sorta di “degustazione” sull’immagine che scorre. Più in generale, ricordiamo che l’arte immortala ogni logorio d’una durata. Il vedere è sin troppo immediato; vale di più il vedere… di vedere. La nude-art allora non < mostra >, bensì < si mostra >. La fotografia esteticamente migliore diventerà “dialogica”. Il nudo non sarà soltanto visto. Invece, bisogna parlarlo. Conosciamo il tipico modo di dire per cui la verità è nuda. Il lirismo però si dà nella tensione di raggiungere la comprensione. Il nudo diventa artistico ove parli, avendo una verità che si rivolga ai suoi spettatori, senza banalmente farsi vedere da questi. Chi degusta, è raffinato al proprio soffermarsi sul palato che “s’esibisce”.

L’arte acquista un valore estetico quando colpisce. Ciò accade tramite la percezione, che porta la sensazione a concettualizzarsi, ma solo ri-entrando continuamente in se stessa. Il “gusto” estetico infatti non può servire, pena la sua stabilizzazione nel banale. L’eleganza cerca volentieri la sinestesia fra la comprensione ed il lirismo. Quella ha sempre una “vena” di pienezza, facendosi vedere e ri-vedere.

(Credits: Paolo Meneghetti)

Hume parte dal presupposto che un sentimento inerisce solo a se stesso. Esso pare completamente soggettivo. Il gusto inerisce al caso specifico del sentimento per il piacere. I giudizi invece si pongono verso gli oggetti di tipo reale. Tramite l’esperienza, noi conferiamo loro una chiara e precisa verità. Il sentimento non si rappresenta nulla. Innanzi a qualcosa che parrebbe suscitarcelo, accade solo una relazione “di conformità” (un accordo) fra quella e la nostra interiorità. Hume ricorda in specie la ricerca d’una bellezza reale. Questa si percepirebbe come se valesse per il dolce o l’amaro. Tutta la “carica spiritualistica” della bellezza va “scemando”, eguagliata alla predisposizione naturale degli organi nervosi. Prima conta il sentire, senza alcuna differenza rispetto al banale dolce od amaro per un caffè. Nel contempo, la facoltà della percezione favorisce la profondità d’un giudizio, e tramite la componente materialistica dentro l’oggetto che ci pare bello. La fenomenologia del gusto per Hume sarebbe meno scettica (o relativistica) di quanto si pensi. Il piacere appartiene alla sfera soggettiva; ma almeno sentendolo “con più profondità” (sin dentro le “origini fisiologiche”) noi tutti potremmo accordarci “alla sua misurazione”. Una gustosità sempre è seguita o respinta. Ma si potrà spostarla da una mera sensazione alla “profondità” d’una percezione.

Così, il relativismo cade. La sensazione in sé molto “naturale” si carica d’un primo concettualismo, quantunque solo all’imprecisione d’una percezione. È una dialettica esemplificabile attraverso la fenomenologia dei servizi fotografici. Una donna in posa glamour può farsi gustare da qualcuno in via passionale come una “martellata” (per l’istinto), oppure da qualcun altro in via banale come una “gelatina” (per il piacere); ciò non vieta ad entrambi l’accordo finale, percependo la misura della componente materialistica, per l’oggettività rispettivamente del ferro e dello zucchero.


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