The Wall – Recensione dell’opera rock targata Pink Floyd


Tutti conoscono The Wall. Gli anni d’oro dei Pink Floyd, la copertina con i mattoni, il celeberrimo brano Another brick in the wall, part 2 e l’indimenticabile video disegnato da Gerald Scarfe.

È per questo che in uno speciale sui muri non poteva mancare una recensione di The Wall: era impossibile lasciarsi scappare l’occasione di raccontare l’album oltre la leggenda, la musica oltre il mito.

Copertina Album dei Pink Floyd THE WALL

Proprio perché questo articolo vuole servire anche da guida all’ascolto per chi si avvicina per la prima volta al disco dei Pink Floyd, è bene cominciare dalle basi.

The Wall è un concept album, caratterizzato cioè da una sequenzialità narrativa in cui ciascun brano è parte di una storia che si evolve con il procedere delle 26 tracce, distribuite equamente su due dischi.

The Wall è stato giustamente definito anche un’opera rock, per lo svolgimento in due atti e perché l’album è solo il primo dei tre tasselli in cui si è sviluppato il progetto di Roger Waters, bassista e leader della band al tempo della sua uscita.

Oltre al disco doppio del 1979, infatti, The Wall è stato anche un monumentale tour in 31 date tra Europa e Stati Uniti (1980-81) e un film diretto da Alan Parker, con Bob Geldolf nel ruolo di protagonista, uscito in sala nel 1982.

Tutto comincia in un momento non semplice per i Pink Floyd. Siamo ad appena sei anni di distanza dal successo planetario di The dark side of the moon (1973), unanimemente considerato l’Album per antonomasia nella discografia della band, e per qualcuno anche nella storia del rock.

Il gruppo ha prodotto due ottimi dischi – Wish you were here (1975) e Animals (1977) – ma senza riuscire a raggiungere il livello di quel capolavoro. Nel frattempo iniziano a pesare le conseguenze di un successo che nel mondo della musica ha fatto più di una vittima.

Chi più di tutti risente di questa situazione è Roger Waters, che sceglie di riversare le sue ansie nel nuovo progetto. The Wall prende forma da questa forte impronta autobiografica, unita all’amarezza per il destino del primo leader della band, Syd Barrett, oltre che a uno sguardo sul mondo dello showbusiness e sulla società in generale dal punto di vista di chi ha raggiunto l’apice del successo.

A queste fonti attinge la storia di Pink immaginaria rockstar protagonista dell’album – che per proteggersi dai fantasmi del passato e dal vuoto del presente costruisce intorno a sé un muro di isolamento, portando a compimento un processo di alienazione iniziato durante l’infanzia.

Il primo mattone del muro è la perdita del padre, caduto sul fronte italiano della Seconda Guerra Mondiale proprio come quello di Waters. A questo fanno riferimento le bombe dell’introduttiva In the flesh? e soprattutto il dittico composto da Vera e Bring the boys back home nel secondo disco.

Aperta dal vagito di un bimbo appena nato, fin da dal titolo The thin ice (Il ghiaccio sottile) sottolinea le difficoltà che Pink si trova ad affrontare non appena si è affacciato alla vita.

Con il successivo brano in tre parti Another brick in the wall, il protagonista comincia a costruire un muro psicologico, mentre viene introdotto un elemento musicale e narrativo fondamentale: quello della ripetizione, essenziale per creare il senso di straniamento che pervade l’intero disco.

Una scuola opprimente (The happiest days of our lives) e una madre troppo protettiva (Mother) inducono Pink a dire addio precocemente alle poche gioie dell’infanzia nel brano Goodbye blue sky, caratterizzato da un’inquietudine profonda che anticipa gli sviluppi successivi.

Sviluppi che nella rapida successione di brevi tracce portano il protagonista a vivere l’alternanza tra senso di vuoto esistenziale e brama di eccessi tipica dell’adolescenza, rispettivante in Empty spaces e Young lust.

La fine di una relazione tormentata quanto necessaria raccontata in One of my turns (Day after day, love turns grey | Like the skin of a dying man) e nella disturbante Don’t leave me now – per le quali Waters attinge al suo divorzio di pochi anni prima – portano Pink a chiudere il muro intorno a sé dando l’addio al mondo (Goodbye cruel world).

Il secondo disco si apre con la bellissima Hey you, che sotto le spoglie di un incitamento rivolto a qualcuno nasconde una riflessione sulla propria condizione: Hey you, don’t help them to bury the light | Don’t give in without a fight (Ehi tu, non aiutarli a seppellire la luce | Non arrenderti senza combattere).

Una timida richiesta di aiuto all’esterno (Is there anybody out there?) si risolve in un nulla di fatto (Nobody home), rappresentata simbolicamente dal telefono che squilla a vuoto, metafora dell’incomunicabilità tra esseri umani che attraversa tutto il disco.

Come ci ricorderanno dodici anni dopo anche i Queen, tuttavia, lo spettacolo deve continuare (The show must go on): ormai allo sbando, Pink viene manovrato come un fantoccio dai burattinai dello showbiz, ritrovandosi in una condizione di piacevole stordimento che gli ricorda quella dell’infanzia.

È la condizione descritta nel brano Comfortably numb, caratterizzato da alcuni tra i più rilevanti contributi compositivi di David Gilmour, che si fa sentire con la sua chitarra in un paio di assoli tra i più memorabili nella storia del rock.

Spinto dall’isolamento al delirio di onnipotenza, quando Pink torna sul palco non è più una rockstar, ma un dittatore di hitleriana memoria, con tanto di simboli a base di martelli incrociati che rimandano alla trasformazione onirica dell’insegnante nel video di Another brick in the wall, part 2.

Dopo aver invitato il pubblico a sbarazzarsi dei diversi (In the flesh), il nuovo Pink lo conduce in una folle corsa che richiama prima l’assenza di pensiero tipica della discoteca (Run like Hell) e infine, esplicitamente, la marcia fascista (Waiting for the worms).

Pink si rende conto della follia a cui ha dato vita e vi pone termine (Stop), ma non può esimersi dal renderne conto. Va quindi in scena il processo evocato in The trial, dove la madre, l’ex moglie e l’odiato maestro di scuola condannano il protagonista ad abbattere il muro.

Sembra paradossale ma è così: proprio coloro che hanno contribuito a costruirlo obbligano Pink a liberarsi dal muro, diventato ormai strumento di isolamento invece che di protezione (mai sentito parlare di comfort zone?).

Questa capacità di esprimere e sublimare le contraddizioni dell’animo umano è una delle caratteristiche più eccezionali del disco, in cui Waters non ha paura di mostrare al mondo i suoi lati peggiori dietro la maschera di Pink (dalla misoginia alle pulsioni reazionarie).

Musicalmente The Wall – penultimo album con il bassista-leader nella formazione – è considerato da molti il canto del cigno dei Pink Floyd, ultimo tentativo di reale sperimentazione (peraltro riuscito solo in parte) di un gruppo che fin dall’addio di Barrett si era distinto per la marcata impronta progressive.

Ma al di là della critica musicale, resta il valore di un’opera senza tempo, che quarant’anni dopo è ancora in grado di descrivere come poche altre la condizione umana. Con ampie venature di angoscia e disperazione, che non sottraggono tuttavia ogni spazio alla speranza.

Dieci anni prima della caduta del muro di Berlino, infatti, la profetica Outside the wall – il cui finale si collega circolarmente all’inizio del disco – conclude l’album con queste parole:

All alone, or in two’s
The ones who really love you
Walk up and down outside the wall
Some hand in hand
And some gathered together in bands
The bleeding hearts and the artists
Make their stand
Some stagger and fall, after all it’s not easy
Banging your heart against some mad bugger’s wall

Da soli o a due a due
Quelli che davvero ti amano
Vanno e vengono al di là del muro
Alcuni mano nella mano
Altri riuniti in gruppi
Quelli sensibili e gli artisti
Cercano di abbatterlo
E quando ti avranno dato il meglio di loro
Qualcuno barcollerà e cadrà
Dopotutto non è facile
Picchiare il cuore contro il muro di un folle

 

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