Prisoner 709, il roboante ritorno di Caparezza


Si chiama acufene, Michele Salvemini aka Caparezza ci convive da circa due anni e dalla sua sofferenza riesce a tirare fuori dal cappello magico Prisoner 709, uno degli album più sentiti della sua carriera.

Immaginate di sentire ogni giorno un fischio costante in un orecchio, un perenne e fastidiosissimo sibilo che vi accompagna dalla mattina alla sera.

L’acufene o sindrome di Larsen autosomica dominante è un duro colpo per Caparezza, una malattia incurabile, con la quale si deve imparare a convivere.

Con ogni probabilità è stato proprio quel rumore la prima nota di Prisoner 709, il nuovo album con cui Caparezza torna a tre anni da Museica, Premio Luigi Tenco per il miglior album del 2014.

Ma questa volta non si tratta di un vero e proprio concept basato sullo storytelling come quelli a cui ci aveva abituati il rapper di Molfetta, quanto piuttosto di un album tematico con un’idea a tenere insieme il tutto: quella della prigione, della sua claustrofobia e dell’evasione.

Il nuovo album è colmo di brani accattivanti, orecchiabili e con testi (come al solito) sopraffini: addentriamoci in alcuni di questi.

«D’allora nei miei timpani ne porto i sibili
Ogni giorno come fossi di ritorno da uno show degli AC/DC»
(Traccia 10 – Larsen)

Ho scelto questo brano per iniziare la mia triade di interpretazioni di Prisoner 709 perché se è vero che quest’ultimo disco di Caparezza è il suo più lavoro più intimo e introspettivo, allora per offrire un impatto ad ampio del raggio penso sia doveroso iniziare dal brano più personale e autobiografico.

Capa ha raccontato in molte delle sue interviste di lancio del disco, reperibili anche su YouTube, di essersi accorto di aver contratto l’acufene durante il Museica Tour, nel 2015. «Durante un concerto comincio a sentire un fischio nell’orecchio. Il giorno dopo continua, e faccio finta di niente. Il giorno dopo ancora lo stesso. Tre giorni dopo, ancora il fischio nell’orecchio, e continuo a ignorarlo. Dopo dieci giorni ho capito che di acufene si trattava».

È vero, solo chi ce l’ha può comprendere cosa sia l’acufene. Ma sarà capitato a tutti noi che abbiamo frequentato ambienti a elevatissimo standard di decibel di svegliarci con un fischio costante all’orecchio.

Gli ultimi versi di questa splendida canzone che invito a scoprire rima per rima sono tanto esaltanti quanto malinconici: uno dei riferimenti è Until the end, brano del 2007 di Tom Morello, un altro al termine feedback, che in medicina è un altro modo di definire l’effetto Larsen.

E poi c’è la dura accettazione della realtà da parte di Michele: hai voluto il rock? Ti sei sparato quantità spropositate di decibel nelle orecchie tra ascolti privati, registrazioni, live? Ora tieniti l’acufene.

La cosa che più inquieta la riflessione e il canto del nostro Caparezza è sicuramente la potenziale eternità della malattia.

Lo spaventa il non poter godere mai più della pace del silenzio, lo atterriscono sì tutte le prospettive che ha così suggestivamente descritto in questi testi, ma soprattutto il loro “finché morte non ci separi”.

«Forse sarà l’età ma cerco un culto da osservare
Per essere libero di privarmi della mia libertà»
(Traccia 5 – Confusianesimo)

Artwork per Prisoner 709Ultimamente ci troviamo davanti a una grande mancanza di Credo da parte della maggioranza delle persone. Ciò che mi ha colpito di questo testo di Caparezza è, da un lato, il sottolineare che si tratti di un bisogno specifico dell’uomo, e dall’altro la forzata conseguenza di legarsi ad esso con catene morali che il Credo implica nel seguirlo.

Viene spontaneo quindi pensare che ci sia una scienza al fondo di questo processo, ovvero un’intenzione ben più razionale.

Che, cioè, le strutture alla base del sistema religioso (esplicate attraverso il riferimento all’impianto scenico e al testo epico) rispondano a modelli costruiti per mantenere gli esseri umani in stato di cattività, per impedire loro di pensare autonomamente, di individuare attraverso un proprio pensiero critico un’etica slegata dal Credo che quindi liberi il credente dai dogmi del Credo stesso.

Anche questi non sono temi nuovi, sulla scia di Karl Marx e della sua celebre massima «la religione è l’oppio dei popoli» verrebbe da pensare che siamo oramai abbastanza assuefatti per non interrogarci più troppo su questi modelli su cui si radicano le azioni collettive, ma leggiamo la questione religiosa solo come un insieme di curiosità ed eccentricità piene di folklore – dall’incenso alle prescrizioni alimentari – e quindi ormai ingenuamente innocue.

Tutte caratteristiche che fanno sembrare la religione poco più che una tendenza da passerella, alla stregua dei tacchi alti o delle creste, ma che in questo modo ne sottovalutano quegli aspetti fortemente razionali presenti sotto traccia, votati a coltivare un’umanità in continuo stato di prigionia la quale, non essendo più vigile, si fa guidare senza nemmeno rendersene conto (e senza nemmeno accorgersi della guida ben presente).

In qualche modo l’impressione che dà questo testo è che il coinvolgimentelo di Caparezza con le religioni sia venuta totalmente meno e che il suo confronto con il mondo religioso stia definitivamente perdendo qualsivoglia importanza, mettendo ogni religione sullo stesso piano: sono tutte uguali e tutte sbagliate allo stesso modo.

Su La Stampa Caparezza ha poi rilasciato un’intervista su Prisoner 709, e alla domanda sulla religione e sulla traccia Confusianesimo ha risposto: «Non ho fede nemmeno in una squadra di calcio o nella natura. Sono troppo razionale, non penso che qualcuno ci possa dire cosa c’è dietro la vita».

«Non è vero che non sei capace
Che non c’è una chiave»
(Traccia 7 – Una chiave)

TUTTI a questo mondo si sono sentiti inadatti, incompleti, incompetenti, incapaci almeno una volta nella loro vita, e per la primissima volta dai tempi di Mikimix, Caparezza ci consola, avvicinandosi a noi spiritualmente, facendoci capire che anche lui, come noi, ha passato un periodo tremendo nella sua vita, ci corre incontro tendendoci una mano e dandoci una virtuale pacca sulla spalla.

Anche questa canzone, come l’intero album Prisoner 709, è un testo fortemente autobiografico che racconta la prigione in cui Caparezza si è trovato negli ultimi tempi.

Fin dalla descrizione iniziale infatti pare che Capa stia descrivendo fisicamente la genesi di un momento di incertezza rispetto a se stesso e alla professione, che lo ha (forse) bloccato.

Dopo tre anni di silenzio, dove evidentemente c’è stato lo spazio giusto per riflettere su di sé, sulla musica e sul senso generale di tante cose, in questo brano come negli altri contenuti in Prisoner 709 affiora la forza matura di una persona che ha superato un grande scoglio esistenziale.

Raccontando della sua prigione, dello sconforto nel non sapere se c’è o meno una chiave per uscire dalla convinzione di non essere all’altezza.

Da questo è emerso un esempio consapevole di produzione artistica intima, che racconta il momento della crisi e dello sconforto con lucida sincerità.

Credo che tutti, prima o poi, scivolino nel non so se sono capace, soprattutto quando svolgono in autonomia attività frutto della propria creatività, e in questo senso Caparezza ha buttato giù un testo in cui è difficile non riconoscersi.

Caparezza ci parla come farebbero un fratello o una sorella, che ci consigliano e ci abbracciano quando i nervi si rilassano ed è normale che scenda qualche lacrima.

Ci riconosciamo in ogni singolo particolare che elenca e ci ritroviamo a guardarlo negli occhi, dall’altra parte dello specchio.

Una chiave è un “tieni duro” spirituale per tutte le persone che hanno avuto un momento di indecisione nella loro vita, per tutte quelle persone che hanno sempre visto il mondo dal buco di una serratura e attendevano soltanto una chiave.

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