La generazione dei millennials oltre le sole periferiche del progresso
La generazione dei millennials sfrutta principalmente il progresso della tecnologia, e quindi deve sempre giostrarsi, fra le applicazioni che si percepiscono dipanando un semplice utilizzo. Dunque è il potere dell’immaginazione, se il primo materializza l’astrattezza della seconda. Un’applicazione quasi non s’adopera, in quanto “tergiversa” di continuo sulle proprie variazioni. La generazione dei millennials è politicamente impegnata a dipanare le ideologie del ‘900. L’informatica per esempio si fonda sull’immaginazione dei dati. Questi saranno “decostruiti” tramite le applicazioni, laddove ancora si dubiterà che le opzioni (varianti) in precedenza scartate si debbano recuperare, in quanto migliori. Positivamente, si può accettare una flessibilità del mercato, se accompagnata dal premio costante per l’innovazione tecnologica. Una startup in partenza si percepisce a “dipanare” un trend consolidato. È una flessibilità dove il tergiversare infonderà paradossalmente l’intraprendenza. Se un uso rischia di saturare il mercato normale, ad un uso “giostrato” interesserà che s’immagini un altro mercato. Una startup quasi “si spreca” a furia di variazioni, intorno al suo target. Ma avviene lo stesso tanto nell’immaginazione umana, quanto nell’applicazione al computer. L’allacciamento fra le due dimensioni diventa un “assillo costante”, per la generazione dei millennials.
Elisabetta Santini ha scritto poeticamente che una rosa si dipana da millenni, rompendo la gravità in grandi bocche. Forse, noi possiamo immaginare la volta celeste, ma nel nostro imbuto “a petalo” per il “tropismo” fra l’inspirazione e l’espirazione. Elisabetta Santini aggiunge che le bocche “floreali” s’aprono alle colonne d’aria, le quali ci nutrono “dal profondo”. Naturalmente, esistono la trachea e l’esofago. Conosciamo anche il mito delle Colonne d’Ercole, mentre sotto “una rosa” del cielo non si respirerà oltre l’orizzonte. Il fiore ha sempre il suo gambo, da dove risale la linfa.
La generazione dei millennials ricorre alla fotocamera digitale. Questa “rompe” la realtà, tramite il “sol boccone” d’uno scatto. Nel digitale, la messa a fuoco tramuta in segnale elettrico. Lo sviluppo tecnologico è letteralmente “arzigogolato” dalle applicazioni. La fotocamera digitale va percepita a profondità “per incastri”. Sulla realtà inquadrata, conta il costante “assillo” dei pixel. È come se le “Colonne d’Ercole” per il rilevamento della luce “squaglino” il loro “imprigionamento”. Al fotografo, si “spalancherà” non tanto l’orizzonte del superficiale, quanto piuttosto la pressione dell’abissale. È il momento della postproduzione, dove gli “incastri” delle applicazioni possono stravolgere “l’atomo” dell’immagine reale. Ci ricordiamo che la generazione dei millennials sembra preferire la lettura del giornale online. Qualcosa in cui le colonne di formattazione sul testo si potranno “inabissare”, per gli “incastri” delle finestre.
Per Vilem Flusser, le categorie estetiche della fotografia sarebbero essenzialmente inscritte fra i lati del suo apparecchio. Noi avremo le opzioni vista da vicino / zoom da lontano, prospettiva rasoterra / panoramica a volo d’uccello, scatto fulmineo / inquadratura fissa. Per Vilem Flusser, ogni fotografo andrebbe a caccia di qualcosa che s’immortali. L’apparecchio gli consentirà di strisciare con le dita, “computando” una serie di opzioni (spesso dialettiche), più o meno immediatamente. Il fotografo deve ingranare nel suo ingresso sulla realtà, salvo poi tenderle un agguato, per immortalarla.
La generazione dei millennials ama la tecnologia delle opzioni. Addirittura, sembra che la startup si faccia “inscrivere”, fra i trend di vendita costantemente al “rodaggio” del loro “inquadramento”. Con le applicazioni, noi sembriamo “a caccia” delle nostre istantanee. Una chat ad esempio è molto più convincente nella sua comunicabilità, se rinforzata dalle icone. Soprattutto, lo smartphone s’usa in attesa del momento “giusto”, per scattare il “simpatico” selfie. Visivamente, il comando dal dito è iscrivibile nello schermo. E, tramite quello, quante volte al giorno l’“agguato” dei trilli per le notifiche dovrà “ingranare” sulla nostra conferma di lettura? Si percepisce che la generazione dei millennials non solo maneggi una tecnologia “di base”, ma anche si destreggi “strisciando” fra le “startup” delle icone.
Fernando Savater distingue il più comune cosmopolitismo dal cosiddetto caospolitismo. Nell’epoca moderna, certo si favorisce la frequentazione delle persone (in specie, con la tecnologia digitale). Una metropoli per Fernando Savater diventerebbe “babelica”, perché l’urbanizzazione funzionerà al viavai dei cittadini. Quella sembrerà paradossalmente “archeologica”, in quanto “sotto le rovine” sia del consumismo da insegna pubblicitaria, sia del centro a fagocitare la periferia più “selvatica”.
È il caospolitismo, che mostrerebbe la sua miniatura negli “incastri” fra le applicazioni. La “babele” del web si fa “archeologica” semplicemente sotto le “Colonne d’Ercole” per l’ultimo aggiornamento (persino con “l’obbligo” di superarlo, pena un funzionamento ridotto!). Le applicazioni “fagocitano” le profondità più recondite del nostro ego, e forse “mitizzandone” il valore periferico… Ma quanto un avatar sul social-network illuderà che si diventi un cittadino del mondo? Pure la startup si potrebbe percepire in via periferica, ad esempio “tergiversando” sui continui aggiornamenti del proprio target. La generazione dei millennials sembra dunque cosmopolita grazie alla tecnologia, e caospolitica “di striscio” sulle applicazioni. È una postmodernità che tende a “fagocitare” la propria archeologia, se il progresso avviene oltre “le sole periferie” del tergiversare, del variare, dell’incastrare, del giostrare ecc… Qualcosa che noi percepiamo bene, ad esempio tramite il social-network oppure la startup.
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