Un oggetto chiamato… donna


Era un’estate calda, più calda del solito. Lui mi aveva adocchiata alla finale di Miss Muretto di Alassio, quando ancora partecipare a quel concorso e salire sul podio era un’ambizione enorme.

Non avevo vinto, ero arrivata seconda. Ma lui era ancora più contento, diceva. “Altrimenti diventi troppo famosa e ti monti la testa”. Lo diceva scherzando, con il riso sulle labbra e io ero orgogliosa della sua gelosia.

Povera illusa. Non sapevo in realtà che il suo apprezzare la mia bellezza, i miei lunghi capelli, i miei occhi verdi e le lentiggini, il mio naso perfetto, il mio corpo statuario erano in realtà tutto una farsa.

I primi anni, quelli in cui hai le farfalle nello stomaco, quelli in cui ti sembra di avere accanto una persona senza difetti, la tua metà della mela, non avevo lontanamente immaginato la fine che avrei fatto. Gli giurai amore eterno davanti al Signore e ad un centinaio di invitati credendo che sarei invecchiata accanto a lui, a guardare i nostri figli correre con le loro gambe e ad accudire nipoti.

Come mi sbagliavo.

Avevo sposato un uomo che non voleva una donna bella. Avevo sposato un uomo che voleva una donna oggetto, un trofeo da esibire con gli amici e i colleghi, una donna non troppo acuta, per questo malleabile a proprio gusto e piacimento.

Una donna senza troppe pretese. Perché no, essere sexy non implica avere intelligenza. A cosa serve ragionare se puoi puntare sul tuo corpo? Ottieni comunque quello che vuoi, basta sculettare e indossare gli abiti giusti. A cosa serve ragionare se c’è un marito che lo fa per te?

Furono anni lunghi, difficili, di lividi ovunque. Fuori e dentro di me. Giorno dopo giorno mi risucchiò l’anima e atrofizzò il cervello.

Dopo tanta fatica e una laurea in ingegneria civile avevo faticosamente tentando di farmi strada nel campo dell’edilizia, sempre combattendo con i pregiudizi della “bionda senza cervello”.

Alla mia prima offerta di lavoro era addirittura sembrato contento, fiero di me. Un trofeo bello e intelligente da esibire. Peccato che passò poco tempo che si rendesse conto che una donna al suo fianco più brillante di lui gli creava più fastidio che orgoglio. Una vigilia di Natale, alla festa della sua azienda, mi ritrovai a parlare con il suo capo di economia. Il dolore di quel mio sbaglio me lo portai sulla pelle per settimane.

Da quel momento, per lui toccai il fondo. I suoi lavaggi di cervello, conditi da dimostrazioni pratiche della sua forza, diventarono sempre più frequenti: mi convinse che a me un lavoro non serviva, che a me pensava lui.

Ero come annientata dalla sua voce, il mio cervello rispondeva agli stimoli che arrivavano dai suoi ordini come un ginocchio picchiato da un martelletto. Con il cuore frantumato mi coricavo ogni sera accanto a lui, che mi guardava sempre con gli stessi occhi bramosi del mio nettare della giovinezza, ma non voleva altro da me.

Ero solo una bambola, una deliziosa bambola perfetta. Tanto perfetta da non dover usare il cervello.

A quello pensava lui. Io non potevo – e non dovevo – essere più di lui.

Non volevo più essere bella se significava essere stupida. Odiavo il mio aspetto, odiavo tutto di me. Avrei voluto sfigurarmi, per far accettare a quella bestia che avevo accanto che, aldilà del mio cuore avevo anche sangue, nervi, ossa, tutto che funzionava e pompavano linfa di intelligenza dentro di me.

Il Signore era stato buono, non solo mi aveva donato un aspetto grazioso, ma anche sensibilità e mente che invece, negli ultimi anni, avevo ficcato sotto le mie scarpe per compiacere un uomo gretto e ignorante.

L’unica cosa su cui eravamo d’accordo era sul non avere figli. Quando avevo finalmente realizzato il guaio in cui mi ero cacciata, avevo giurato a me stessa che non gli avrei mai e poi mai donato un erede, una povera creatura infelice che avrebbe vissuto e annaspato tra i nostri errori madornali e se li sarebbe portati sulle spalle in eterno.

E lui? Neanche lui li voleva, le donne incinta diventano grasse e brutte, sformate. Il seno perde vigore, la pelle si colora di smagliature violacee. L’unica cosa di bello che hai è il tuo corpo, se perdi quello cosa ti rimane?, mi diceva.

Un pomeriggio di fine ottobre, a seguito dell’ennesima violenza subita, mi ritrovai in chiesa, a pregare e mi avvicinò un prete. Non potei neppure togliere gli occhiali dalla vergogna e lui capì. Mi mise in mano un bigliettino, con scritto: se hai bisogno chiamami. Don Angelo. E il suo numero di telefono.

Quelle poche parole mi spaventarono a morte.

Il fatto che qualcuno si fosse accorto che avevo bisogno era come se avesse consolidato in me la certezza che avessi un problema che, fino ad allora, non avevo voluto affrontare, Un po’ per paura, un po’ per codardia. Un po’ perché anch’io, forse, mi ero convinta di essere stupida e inutile, a furia di sentirmelo dire.

Da quel giorno, superata la paura, fu come se invece qualcosa dentro di me avesse ripreso a funzionare.

La notte in cui scappai di casa non era una tipica notte da film horror. Non pioveva, nessun temporale, il clima era mite e umidiccio. Non avevo preso niente con me, se non la foto dei miei genitori che tenevo nel portafoglio. Speravo che mi avrebbe protetta come un santino.

All’inizio non sembrò molto infastidito dalla mia fuga. Certo, mi telefonò innumerevoli volte, si presentò sotto casa della mia amica ma sempre con un fare molto rassegnato e addolorato.

Il peggio venne dopo. Dopo qualche settimana, iniziarono le minacce, gli agguati sotto casa della mia amica, a cui seguirono le denunce. Non potei neanche tornare a casa a riprendere la mia roba in sua presenza, il giudice stabilì che non dovessimo, per fortuna più incontrarci.

Niente di tutto ciò mi fece fare dietro front e tornare sui miei passi. Avevo riassaporato la mia libertà, i miei polmoni ricominciavano a respirare da soli, la mia autostima era di nuovo in crescita.

Dopo mesi accompagnati anche da un lungo periodo di terapia e forte degli sbagli che mi avevano forgiato l’anima come un ferro rovente, mi sentivo talmente carica di linfa vitale e sicura di me tanto da decidere di avviare un progetto che potesse aiutare le donne maltrattate fisicamente e psicologicamente e, grazie all’aiuto di Don Angelo, aprii una piccola comunità di recupero di cui divenni la presidente.

La chiamai #brainyisthenewsexy. Mai più pregiudizi sulle donne belle che non possono essere intelligenti, mai più donne obbligate a sudditanza psicologica solo perché più brillanti e smart di certi uomini.

Il giorno dell’inaugurazione sentivo che finalmente tutto il dolore che avevo subito in quegli anni aveva trovato un senso, uno scopo. Guardavo gli occhi delle “mie ragazze” non con compassione, ma con amore, con la voglia di trasmettergli tutta la forza che avevo avuto.

Dopo qualche mese, una targa in mio onore svettava sul muro di cinta della comunità. Una targa per non dimenticare chi, come me, ha perso la vita ma non ha mai perso il coraggio, gli ideali, e la voglia di dimostrare a tutti che una donna non è solo un’oggetto da assoggettare e mettere in mostra e che l’intelligenza non va mai nascosta.

2 Commenti

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  1. Gian

    Una storia amara, disperata, un epilogo possibile, sentito e risentito al telegiornale mille volte, magari brain diventasse the new sexy per tutti…

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