Biomasse: grave minaccia o fonte energetica del futuro?


Le biomasse sono una fonte rinnovabile che consente di produrre energia a prezzi relativamente contenuti. L’utilizzo dei reflui zootecnici per la produzione di biogas limita la dispersione di nitrati sui terreni agricoli. Non solo: la fermentazione di materie organiche in ambiente chiuso evita che il metano prodotto dalla decomposizione finisca nell’atmosfera, aggravando il problema dell’effetto serra.  Ma allora perché nel 2012 si sono contate oltre cento mobilitazioni di protesta contro la realizzazione di impianti a biomasse e biogas su un totale di 354 contestazioni nei confronti di opere pubbliche e insediamenti industriali rilevate dall’Osservatorio media permanente nimby forum?

Chi scende in piazza con cartelli e striscioni dichiarando guerra alle centrali lo fa sulla base di argomentazioni valide e scientificamente fondate. Cominciamo dalla prima, forse la più scontata: una centrale a biomasse lavora per combustione, la combustione genera fumo e nel fumo ci sono sostanze nocive, dalle polveri sottili all’anidride carbonica, dal biossido di zolfo al monossido di azoto. Un impianto di questo tipo costruito a ridosso di zone residenziali o in vallate chiuse rischia di compromettere la qualità dell’aria e può quindi causare rischi seri per la salute.

In secondo luogo, per poter disporre di materie prime in quantità sufficiente a mantenere a pieno regime gli impianti a biogas viene incentivata la conversione dei terreni agricoli a colture specificamente dedicate, come il sorgo e il mais da biogas, ed ettari di campagne vengono sottratti alla produzione alimentare. Il risultato è evidente: l’Italia si trova costretta a importare una quantità crescente di prodotti dall’estero, complice anche la contemporanea riduzione delle aree agricole, erose negli ultimi decenni da processi di cementificazione incontrollati e sempre più invasivi.

A repentaglio, poi, è in generale la qualità della vita delle aree adiacenti i digestori, e questo per un motivo piuttosto semplice: i cattivi odori generati dalla decomposizione, un problema che può essere tamponato ma non del tutto risolto con una gestione oculata e rigorosa dell’impianto. Non esattamente gradevoli sono poi gli effluvi provenienti da un terreno agricolo concimato con il digestato, ma qui entra in gioco un problema ben più serio, non di tipo olfattivo ma di tipo sanitario: la proliferazione, nel corso della digestione anaerobica, di batteri pericolosi per l’uomo e anche per alcune produzioni agroindustriali, formaggi in primis. Se per le persone il pericolo numero uno si chiama Clostridium botulinum, il batterio responsabile di quella grave intossicazione alimentare conosciuta come botulismo, il vero incubo dell’industria casearia è invece il Clostridium tyrobutyricum. Che cosa fa? Genera spore, che possono resistere intatte per mesi, entrare nel ciclo produttivo del latte e quindi finire nel formaggio, dove trovano le condizioni ideali per germinare, con conseguenze pesantissime sulla qualità delle forme: gonfiore tardivo, spaccature nella pasta, caverne e altri difetti che compromettono irreparabilmente la produzione.

È proprio di fronte a tale minaccia che le istituzioni hanno cominciato a mostrare sensibilità verso le problematiche legate alla proliferazione degli impianti a biogas. La Regione Emilia-Romagna, in particolare, con la delibera dell’Assemblea legislativa n. 51 del 26 luglio 2011 ha espressamente vietato la costruzione di impianti nelle aree di produzione del Parmigiano Reggiano: a rischio è uno dei prodotti simbolo del Made in Italy alimentare nel mondo, che nel proprio disciplinare proibisce tanto l’utilizzo di insilati di mais e di altri foraggi fermentati – altri responsabili del pericolo Clostridium – nell’alimentazione delle vacche il cui latte è destinato alla caseificazione quanto, soprattutto, il ricorso a conservanti come il lisozima d’uovo.

Alle problematiche sin qui elencate si aggiunga, da ultimo, una questione che già da sola inviterebbe a riflettere sull’opportunità o meno di costruire un impianto a biomasse. Qualsiasi struttura destinata alla produzione di energia per funzionare in modo profittevole ha bisogno di essere “alimentata” da un flusso di materie prime proporzionale alle dimensioni dell’impianto stesso: in pratica, deve poter lavorare sempre a pieno regime, o quasi. In mancanza di una legislazione specifica, tuttavia, nella realizzazione di una centrale a biomasse o di un digestore anaerobico l’iniziativa è spesso lasciata nelle mani di soggetti privati, mossi in molti casi dalla sola volontà di massimizzare i profitti: il risultato è la costruzione di impianti sovradimensionati rispetto al reale fabbisogno energetico del territorio in cui sono installati e la conseguente necessità di alimentarli con materiali provenienti da aree limitrofe se non addirittura importati dall’estero. Risultato: un traffico di automezzi tale vanificare, in termini di inquinamento ambientale e qualità della vita delle zone attraversate, i benefici degli impianti stessi.

È questo il caso, tanto per fare un esempio, del temuto progetto, a oggi ancora in fase di definizione, di un nuova centrale a biomasse a Nacca di Vaestano, in comune di Palanzano (PR), nel cuore della Val Parma, quella Food Valley divenuta famosa nel mondo per i propri prodotti alimentari d’eccellenza, dai salumi ai formaggi. Attualmente bloccato in attesa di una sentenza del Tar, il progetto è da almeno tre anni al centro delle proteste di un nutrito numero di abitanti della zona, che evidenziano le ricadute negative che un doppio impianto della potenza complessiva di due megawatt comporterebbe in un’area che dai propri delicati equilibri ambientali ha saputo nel tempo trarre ricchezza.

I comitati formatisi spontaneamente per dire “no” alla centrale di Nacca confidano in un epilogo simile a quello con cui a Felino, sempre nel parmense, lo scorso dicembre si è chiusa un’altra vicenda spinosa, quella relativa alla costruzione di un impianto a biogas da parte di un’azienda privata nella frazione di San Michele Tiorre. Per lo stop, in questo caso, non si è reso necessario l’intervento del Tribunale amministrativo regionale: è stata sufficiente una delibera del Consiglio comunale, che ha affossato il progetto adducendo “motivi urbanistici e ambientali”. In altre parole, ha vinto la volontà di non deturpare il paesaggio agricolo in una zona rurale di grande pregio e di tutelare una produzione di qualità come quella del Parmigiano-Reggiano.

A fronte di casi negativi come quelli appena descritti, non mancano tuttavia anche esempi virtuosi, situazioni nelle quali è stato possibile coniugare produzione di energia da fonti rinnovabili, presidio del territorio e ricadute positive dal punto di vista sociale. A fare notizia, nei giorni scorsi, è stato in tal senso il florido connubio tra Renovo Bioenergy e Legambiente, che hanno avviato alcuni interessanti progetti nel Sulcis, in Sardegna, dopo i positivi risultati conseguiti dall’azienda mantovana con alcune iniziative pilota realizzate a partire dal 2007 in Val di Vara, una zona ad alto rischio idrogeologico. La ricetta è semplice: centrali di dimensioni ridotte e “a chilometri zero”, alimentate con i materiali recuperati dalla manutenzione dei boschi vicini e nelle quali trova occupazione manodopera avviata al lavoro da cooperative sociali che danno precedenza a persone in condizione svantaggiata.

Iniziative su piccola scala, nelle quali biomasse e biogas possono esprimere al meglio tutto il loro potenziale.

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