Democrazia: un antidoto per la fame?


Quanto la partecipazione democratica può contribuire al miglioramento delle condizioni di vita dei più poveri? Secondo l’economista indiano e premio nobel Amartya Sen, chi vive in un paese democratico ha –ceteris paribus– meno possibilità di soffrire la fame rispetto a chi si vive sotto regimi dittatoriali o semi-dittatoriali.

Come può il sistema istituzionale influire sulla disponibilità di un fattore materiale quale è il cibo? Nell’immaginario comune, il concetto di carestia è associato a quello di drastica riduzione di derrate alimentari dovuta a cause naturali ed esogene rispetto all’azione umana (ad esempio condizioni climatiche sfavorevoli, quali siccità o eccessive precipitazioni). Uno dei più grandi contributi di A. Sen, con la sua pubblicazione “Poverty and Famines. An essay on entitlements and depravation” (1970), è stato il sottolineare come, per misurare ed identificare la concreta possibilità di sofferenze causate dalla fame, sia necessario considerare il verificarsi di diverse situazioni, delle quali il crollo della disponibilità di cibo costituisce solo un esempio. Il cosiddetto “Entitlement approach” ideato da Sen muove di fatti dalla considerazione che ogni individuo può procurarsi un “paniere di beni” di dimensione dipendente dalle risorse a sua disposizione (abilità, cultura, forza-lavoro, terra, altri assets materiali o immateriali..), le quali possono appunto essere “convertite” in derrate alimentari attraverso i meccanismi di mercato. Un repentino aumento nel prezzo di determinate vettovaglie, così come una caduta nel valore delle risorse a disposizione, possono dunque avere un effetto rilevante sulle possibilità di consumo degli individui. Si pensi, ad esempio, all’impatto che un’ epidemia diffusasi fra il bestiame può avere sul benessere di una comunità dedita principalmente alla pastorizia.

Analizzando diversi episodi storici, legati a non felici esperienze di deprivazione in paesi in via di sviluppo, l’economista indiano nota come in più di un caso la morte di migliaia (o milioni) di persone sia dovuta ad una combinazione di cause naturali ed artificiali, e che in ogni caso appropriati interventi da parte delle istituzioni pubbliche avrebbero potuto fermare, o quantomeno arginare, il disastro. Fu il caso, ad esempio, della grande crisi del Bengala del 1963. Ad un’attenta analisi, la disponibilità pro-capite di cibo si dimostrò essere addirittura più elevata rispetto a periodi nei quali non furono riscontrati problemi. Tuttavia, la vertiginosa crescita  nel prezzo di alcuni viveri fondamentali (in particolare del riso, che per gli autoctoni ammonta a circa il 60% del fabbisogno calorico), ben superiore al contemporaneo aumento dei salari e del costo di altri beni, avrebbe, per più di un milione di persone, fatto la differenza fra la vita e la morte.

Considerando invece episodi di carestie riguardanti Etiopia (1972-74) e Bangladesh (1974) Sen si premura di mostrare come l’approccio legato al declino nella disponibilità di cibo (FAD-Food Availability Decline) sia in grado di spiegare solo in minima parte le tragedie verificatesi. Tuttavia, in tali casi non fu soltanto una spiccata inflazione alimentare a giocare un ruolo decisivo, ruolo che spettò anche alla “destituzione” di diverse categorie sociali legata alla perdita o al deprezzamento dei fattori in loro possesso. La morte di un consistente numero di capi di bestiame fu ad esempio alla base delle difficoltà dei pastori Etiopi nella regione di Wollo, mentre furono diverse inondazioni a far crollare il reddito di diversi segmenti della popolazione in Bangladesh (in particolare braccianti e lavoratori rurali). A partire da tali considerazioni, si rende possibile ripensare forme più efficaci di intervento governativo ed internazionale, grazie ad una più affidabile identificazione delle situazioni e dei soggetti a rischio.

Il contributo di Sen non si ferma però qui: egli si spinge sino ad affermare che, in uno stato caratterizzato da istituzioni democratiche, sia nelle facoltà e nell’interesse di chi detiene il potere governativo evitare che i più poveri soffrano la fame. Di fatti, in presenza di efficaci meccanismi di rappresentanza popolare -fra cui libertà di opinione ed espressione, stampa non censurata e rappresentanti eletti a suffragio diretto- non solo vi è maggiore consapevolezza pubblica delle eventuali difficoltà sofferte da determinate fasce della popolazione, ma attraverso il meccanismo elettorale possono essere “puniti”, tramite mancata rielezione, i politici responsabili (diretti od indiretti) di tali sofferenze.

Riguardo alla prima affermazione, si consideri come, in regimi monopartitici o totalitari, non solo i cittadini sono solitamente disinformati riguardo alla concreta situazione del paese (dato l’ovvio interesse del partito a mascherare i propri fallimenti), ma è talvolta difficile per i governanti stessi essere a conoscenza di eventuali problematiche. I funzionari locali, di fatti, incentivati ad ingraziarsi i quadri dirigenti del partito, preferiscono celare l’esistenza di criticità e disfunzionalità. Un esempio può essere ricercato nelle Cina maoista, all’epoca del cosiddetto “Grande balzo in avanti” fortemente voluto dallo storico leader. Fu lo stesso Mao a riconoscere, ad un’assemblea del Partito Comunista Cinese nel 1962, come senza un sistema democratico si rendesse estremamente difficile raccogliere informazioni veritiere ed affidabili sulla reale condizione del paese.

Spostandosi invece sul ruolo protettivo della democrazia, è possibile evidenziare come negli ultimi decenni paesi caratterizzati da regimi democratici come il Botswana, l’India o lo Zimbabwe siano sempre riusciti ad evitare episodi di sofferenza endemica, che invece rischiano tuttora di verificarsi in paesi quali il Sudan, la Somalia, l’Etiopia ed altri, nei quali il freno dei partiti di opposizione e dei media è assente o mal funzionante.

Da un lato, la prevenzione di crisi e carestie è solo uno dei tanti benefici che può apportare la democrazia, dall’altro tale analisi non può essere letta come un’asserzione di indubbia superiorità di tale forma di governo. Le nazioni “democratiche” sopra citate, di fatti, difficilmente possono reggere il confronto con altre realtà, come quella cinese, nei quali un governo dispotico ha comunque permesso un significativo miglioramento della qualità della vita, misurata attraverso indicatori quali aspettativa di vita e Pil pro-capite.

 

Per approfondimenti sulla vastissima tematica si consiglia la lettura di “Povertà e carestie” (A. Sen, 1970) e di “Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia” (A. Sen , 1999).

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