Cambogia e Vietnam: diario di un sogno


Sono a Siem Reap, Cambogia.  Nulla nel sud-est asiatico supera, in bellezza e imponenza, i templi di Angkor, la ricca eredità dell’impero Khmer, rimasti per molti secoli in balìa della giungla.

Mi procuro un pass con foto ed entro nel sito archeologico patrimonio dell’Unesco. Non credo ai miei occhi: è un sorprendente connubio di simmetria e spiritualità,  grandioso esempio di devozione agli dèi. Il più maestoso dei templi è Angkor Tom e visitare il Bayon a dorso di elefante è un’esperienza unica: restano ignoti funzione e simbolismo, ma sembra perfetto per un monumento il cui emblema è un volto dal sorriso enigmatico. Queste enormi teste guardano i visitatori da ogni angolo, trasmettendo una sensazione di potere e controllo. Sotto un sole cocente, arrivo alla “terrazza del Re Lebbroso”: è una piattaforma di circa sette metri, sulla quale si erge una statua nuda. Secondo la leggenda, almeno due re di Angkor si ammalarono e quindi quest’imponente struttura potrebbe raffigurare uno dei due. Secondo un’altra teoria la statua raffigurerebbe Yama, Dio della Morte, e proprio qui sarebbe stato collocato il crematorio reale. A fianco, “la terrazza degli elefanti”, gigantesca tribuna per assistere alle cerimonie pubbliche. Da quest’altezza riesco a immaginare lo sfarzo e la grandiosità dell’impero Khmer, nel suo momento di massimo splendore.

Lascio Siem Reap e mi dirigo verso Battambang. Quattro ore per percorrere poco meno di duecento chilometri: un autobus diroccato, canzoni in khmer a ripetizione, una strada senza confini e un conducente con un senso dell’orientamento un po’ confuso. Quaranta gradi all’ombra, senza aria condizionata: raggiungere questa cittadina di provincia non è propriamente facile. Ma anche stavolta ne vale la pena. Battambang è conosciuta per il bamboo train, ma soprattutto qui è possibile vedere ancora tutto il passato coloniale di questo paese, con i suoi palazzi in stile e il lungofiume dall’aspetto un po’ decadente.

Mi rimetto in viaggio, stavolta verso la regina della Cambogia, la capitale: percorro “l’antica Via Reale”, attraversando un ponte incredibile, fatto costruire da Jayavarman VII otto secoli fa. È lungo settantasette metri e sorvegliato da temibili naga, perso in un labirinto di piste per carri trainati da buoi. Lungo una strada di terra rossa mi aspetta Sanbor Prei Kuk: un tempo chiamata Isanapura, era la capitale dei Chenla. L’atmosfera del luogo è calma e serena. Decine di bambini ti seguono portando sul braccio sciarpine che vendono per un dollaro. Sono così dolci che vorresti dare a tutti qualcosa.

Arrivo a Phnom Penh, dove si incontrano il passato e il presente dell’Asia: una città fatta di povertà e di eccessi esasperati, ma che ammalia. La zona che costeggia il “fiume marrone”, con palme ondeggianti e bandiere al vento, è una delle più affascinanti di questa parte di mondo: il Museo Nazionale, il Mercato Centrale, capolavoro Art Deco, la Pagoda d’Argento nel Palazzo Reale e la collina del Wat Phon, dove, per un dollaro, puoi fare volare via un uccellino dalla sua gabbia, esprimendo un desiderio.

Ciao, Cambogia! Eccomi in Vietnam.

Se la Cambogia è quasi immobile, il Vietnam corre disperatamente e cerca di dimenticare. È un paese in grande ascesa.  Arrivo ad Hanoi, la capitale: più piccola, più tranquilla, più verde e più austera di Ho Chi Minh, ricorda in qualche modo una città della provincia francese. Le strade si animano di vita (e sfortunatamente di traffico), i venditori ambulanti sbucano dappertutto, i negozi espongono direttamente le merci sui marciapiedi.

A qualche chilometro di distanza, mi trovo immersa in uno scenario sorprendente: la baia di Halong. Una meraviglia incontaminata in mezzo al mare, con più di 3000 faraglioni e isole. Il paesaggio marino surreale è stato dichiarato patrimonio dell’umanità. Il nome significa “luogo dove il drago si è inabissato nel mare” e nasce da una leggenda:  si narra che questo animale fantastico abbia creato la baia e le isole dimenando la sua coda. Si dice anche che una mitica creatura marina, il Tarasco, frequenti le acque della baia.

Assaporo la magica atmosfera del Delta del Mekong: il paesaggio è affascinante e mi scorre davanti agli occhi come un film. Case galleggianti, palafitte che affiorano sulle rive del fiume, alberi completamente sommersi dall’acqua, barche con gli occhi dipinti sulla parte anteriore. La vegetazione si rispecchia sul fiume ed è davvero uno spettacolo. Palme, banani, ogni tanto una casa, dei bambini che tornano da scuola in bici.

Ultima tappa: Dien Bien Phu, che si trova a 420 km da Hanoi, nella vallata a forma di cuore Muong Thang, vicino al confine con il Laos. È uno dei luoghi più remoti del Vietnam: circondata da una fitta foresta, la zona è abitata da alcune tribù autoctone, come i Tai e i Hmong. Fu il teatro di una battaglia decisiva: nel 1954 le truppe dei Viet Minh sconfissero la guarnigione francese dopo un assedio di 57 giorni, costringendo il governo francese ad abbandonare i suoi propositi di ristabilire un dominio coloniale sull’Indocina.

Chiudo qui il mio diario, ringraziando quei lettori che hanno avuto la pazienza di accompagnarmi in questo viaggio ancora-da-fare. Siamo rimasti a bocca aperta di fronte alla sontuosità di Angkor Wat, alla natura rigogliosa e intatta, alla forza di chi non ha dimenticato la guerra civile ma sta cercando orgogliosamente di risollevarsi. Abbiamo attraversato il “fiume marrone” Mekong, passando dal cielo grigio e il traffico di città come Hanoi al fascino della Baia di Halong.

Cambogia e Vietnam: un giorno ci vedremo. «Per quella percezione di gentilezza, amabilità, garbo e delicatezza che ritrovi indistintamente nelle persone, nel cibo, nei luoghi ed in tutto ciò che ti circonda».

Lost in una bellezza struggente: o almeno così l’immagino.

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