La Cina che andò al liberismo


Il liberismo e sviluppo inarrestabile del pianeta Cina sono due fenomeni destinati a viaggiare associati. Negli anni ottanta il liberismo si è affermato come politica economica di sistema e la locomotiva Cinese ha iniziato a correre. Questo sincronismo non dice però tutto sulle affinità elettive fra Cina e liberismo. Per anni, prima della crisi del 2008, i sostenitori istituzionali del Washington Consensus  nelle autorevoli figure del FMI e della Banca Mondiale, con Economist  e Financial Times a seguito, si sono ostinati a considerare la Cina come il vero miracolo economico del liberismo. Il trend di riduzione della povertà e della disuguaglianza del reddito mondiale, che ha accompagnato il decollo della Cina a partire dagli anni ottanta, veniva intestato alle aperture di Pechino rispetto alle politiche economiche da loro caldeggiate e prescritte. Certo l’immagine che la stessa Cina dava del processo di riforme che andava ad aprire la sua stessa economia all’iniziativa privata e al mercato non faceva nulla per smentirli. Lo stesso Deng Xiaoping nel presentare il pacchetto normativo della svolta mercatista si esprimeva con un reaganiano “Lasciamo che alcuni divengano ricchi prima, così che altri lo possano divenire dopo”. E sotto l’immagine c’era poi sostanza. Mentre negli anni novanta i prodotti cinesi a poco a poco entravano nella vita di tutti i giorni del consumatore occidentale, la fiscalità cinese introdotta dal reaganiano Deng incoraggiava gli investimenti diretti da parte di imprese straniere in Cina tassandone i profitti al 15% contro il 33% richiesto alle imprese locali. Allo stesso modo i dati attuali sull’occupazione e sul Pil cinese testimoniano come l’esposizione delle imprese pubbliche alla competizione con le imprese straniere e soprattutto con una grande varietà d’imprese private e semi-private cinesi, sia stato un fatto terribilmente concreto. Il tasso d’occupazione e l’indice di produzioni delle imprese statali cinesi è dagli anni ottanta crollato in maniera esponenziale, in netta controtendenza con gli stessi dati relativi all’intera economia cinese. Eppure tutti sappiamo tutti in maniera più o meno inconscia sappiamo che qualcosa non torna. Passati ormai trent’anni dalle riforme di Deng all’appello dello sbandierato gradualismo cinese verso l’economia di mercato manca ancora l’intero settore  della mobilità dei capitali. Lo stato cinese ancora oggi continua a detenere un rigido controllo sui movimenti di capitali in entrata e in uscita dalla repubblica popolare. In egual misura il valore dello Yuan continua essere regolato dallo stato cinese attraverso un tasso di cambio fisso rispetto al dollaro. Ma il ruolo della compagine pubblica nel miracolo economico cinese non si limita e queste due questioni tutto sommato abbastanza conosciute.

Nel 2004 in numero di lavoratori cinesi pari a circa il doppio di quelli occupati in imprese urbane straniere, private cinesi o in comproprietà erano impiegati in cooperative a capitale interamente o parzialmente pubblico. Questo tipo di attività, che rappresenta quindi una fetta immensa sulla quota di occupati cinese, vengono definite imprese di municipalità o di villaggio. S’irradiano a formare un tessuto omogeneo in tutta la Cina periferica, un tempo rurale, e sono legate sia dal punto di vista dei capitali controllanti che da quello dell’iniziativa economica agli enti pubblici locali. Le imprese di municipalità sono divenute dagli anni ottanta a oggi uno dei centri primari per il ri-orientamento delle energie imprenditoriali dei quadri del partito comunista cinese e delle autorità governative verso obiettivi di sviluppo economico. Il ruolo da esse svolto è stato principalmente quello di riallocare i surplus dalle attività agricole, loro vocazione originaria, verso attività industriali ad alta intensità di lavoro ( come quelle manifatturiere), capaci di assorbire produttivamente l’eccesso di lavoro agricolo prodotto dalla modernizzazione del settore primario. Stime alla mano pare che questo tipo di imprese dal 1980 al 2004 abbiano creato almeno il quadruplo dei posti di lavoro persi nel settore statale e delle cooperative urbane sempre direttamente legate al governo cinese. Quindi più che a una “ritirata” dal campo della pianificazione economica, il caso cinese sembra più rappresentare una forma di “decentramento” a vantaggio degli enti locali dello statalismo.

Un secondo esempio del ruolo dell’intervento pubblico nell’irresistibile ascesa dell’economia cinese è rappresentato dai distretti industriali conosciuti come Export processing zones.

A partire dalle riforme di Deng lo stato centrale cinese ha impiegato ingenti somme di capitali per specializzare tre differenti aree localizzate del paese nel settore delle esportazioni. Questi tre distretti sono negli anni novanta divenuti il motore con il quale l’economia della Cina si è affermata come leader nel settore dell’export a livello mondiale.

Ognuno di questi tre grandi complessi d’esportazione è stato costruito con una propria precisa specializzazione: l’area del delta del fiume delle Perle pensata come area manifatturiera ad alta intensità di lavoro copre quel segmento di mercato di prodotti made in Cina relativi all’oggettistica o all’abbigliamento, quella categoria di esportazioni cinesi distribuite in U.S.A da Wall-Mart tanto per citare l’esempio di significativo. Una seconda area è quella del delta di fiume Yangze, specializzata in produzioni ad alta intensità di capitale come automobili, semi-conduttori, telefoni cellulari e computer. La terza invece è stata costruita come una sorta di Silicon Valley del made in Cina ed è situata nella Zhongguan Cun, vicino a Pechino. In quest’area il governo cinese interviene direttamente forzando tra università, imprese e banche di stato per far progredire lo sviluppo nel settore delle tecnologie dell’informazione. Queste tre distretti industriali pensati e sviluppatisi grazie all’intervento diretto dello stato centrale sono forse le uniche vere e proprie aree in cui l’economia made in Cina si è dimostrata permeabile rispetto al sistema liberista internazionale. I grandi investimenti esteri si concentrano in questi tre distretti ed anche i più solidi rapporti tra le  multinazionali, che ormai si pongono come complessi vettori di distribuzione globale e il settore manifatturiero cinese avvengono proprio qui.

In definitiva pare che la Cina abbia intrapreso una via tutta specifica alla sviluppo economico che si discosta non di poco rispetto al modello liberista legato all’economia di mercato. La via delle riforme di Deng più che una graduale apertura al liberismo rappresentano piuttosto l’inizio di un cammino specifico di sviluppo. Infatti nonostante le aperture all’iniziativa economica privata, l’intervento pubblico mirato al controllo e all’indirizzo dello sviluppo continuano a ricoprire un ruolo sostanziale nel panorama della Cina attuale.

Grazie alla dimensione continentale e all’immensa popolazione del paese, queste politiche hanno consentito al governo cinese di combinare i vantaggi dell’industrializzazione orientata all’esportazione, ampiamente integrata dall’investimento estero, con i vantaggi di un’economia nazionale auto-centrata informalmente protetta da lingue, usanze, istituzioni locali e reti di rapporti accessibili agli stranieri soltanto attraverso intermediari locali.

La riprova di questo rapporto contraddittorio con un sistema di libero mercato appaiono infine tutte le problematiche di natura sociale legate all’industrializzazione e all’avvento della società dei consumi. Questo tema ampiamente discusso in occidente, ricorda più da vicino quello delle contraddizioni sorte, proprio in un sistema economico di tipo pianificato come quello dell’Unione Sovietica.

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