Oriente


I maestri di Zen aiutano e consigliano i loro allievi in una stanza appartata. Nessuno vi entra quando il maestro e l’allievo sono insieme.

Mokurai, il maestro di Zen del tempio Kennin di Kyoto, si divertiva a chiacchierare non soltanto coi suoi allievi, ma anche con mercanti e giornalisti. Un certo fabbricante di tinozze era quasi analfabeta. Faceva domande sciocche a Mokurai, prendeva il tè e poi se ne andava.

Un giorno, mentre il fabbricante di tinozze era là, Mokurai sentì il desiderio di parlare con un discepolo, sicché pregò il fabbricante di tinozze di aspettare in un’altra stanza. «Da quanto ho capito, tu sei un Buddha vivente» protestò l’uomo. «Nemmeno i Buddha di pietra nel tempio respingono la gente che si affolla davanti a loro. E dunque perché dovrei essere escluso proprio io?».

Così Mokurai fu costretto a uscire per vedere il suo discepolo.

Il Buddha vivente e il fabbricante di tinozze, 101 Storie Zen

Molte sono le  leggende e le storie che si raccontano in Oriente, ma onnipresente è la figura del “maestro”. Essa infatti è una delle più ricorrenti e importanti in racconti, fiabe, cartoni animati, storie vere e altro ancora. Sensei per i giapponesi, Si-Fu per i cinesi, Mastara per gli indiani, il maestro è colui che insegna, colui sul quale “grava il peso delle radici”. Egli passa le sue conoscenze, la sua saggezza, tutto il suo sapere ad un allievo, che anche se prenderà una strada differente, terrà sempre in mente ciò che ha appreso nel suo periodo di addestramento.

Molti maestri vengono ricordati per le loro straordinarie abilità, altri per i savi pensieri, altri per grandi azioni di pace, altri ancora per i loro comportamenti “strambi”.

Insegnare però non rende i maestri superiori ai loro allievi: ciò li porta ad allinearsi perfettamente con il futuro, con ciò che sarà.

Il maestro è colui che sconfigge la vera morte: è il non ricordare qualcosa o qualcuno, infatti, a fa sì che esso muoia davvero.

Quasi tutto quello a cui si da normalmente importanza nella società occidentale è riassumibile nel bambino che gioca. Ci preoccupiamo di fare carriera, di avere potere, di avere denaro, di avere, avere, avere, di fare, fare, fare. E poi ci troviamo vecchi, dopo aver vissuto questo breve lasso di tempo che ci è concesso su questo pianeta. E ci ricordiamo che siamo umani e che stiamo per andarcene!

«Quante cose avrei fatto diversamente, se solo avessi immaginato che sarebbe passato così in fretta!»

Uno dei problemi fondamentali della società occidentale è la negazione della mortalità. La morte viene rifiutata, come un qualcosa a cui non bisogna pensare, e chi ne parla porta solo sfortuna. In verità, essere consapevoli del fatto che da un momento all’altro potremmo morire, e del fatto qualunque cosa costruiamo è temporanea, darebbe un senso del tutto diverso alle nostre vite.

Si può reagire in molti modi a questa consapevolezza, alla consapevolezza della propria mortalità.

Il primo modo, quello più vitalistico, dice: «Morirò prima o poi, la vita è breve, godiamola al massimo finché siamo in tempo, bruciamo la sua fiamma di candela facendola diventare un incendio, godiamo e viviamo fino anche a morirne, perchè tutto finirà presto».

Il secondo modo, quello della consapevolezza e dell’introspezione, dice: «Sono qui. Sono vivo. Ma cosa sono io? Perché ho una coscienza?  Cos’è la coscienza? È possibile che io sia solo carne e nervi e scariche elettriche in un cervello gelatinoso? È possibile che tutto abbia inizio con la nascita e finisca con la morte? Che questo vasto mondo interiore che sento sia solo un inganno della materia, nato per caso in un mondo di pura materia? Qual è il senso di tutto questo?».

Il terzo modo è quello dei giovanissimi, per il quale diventare vecchio non importa affatto, a cui in fondo non dispiacerebbe morire a 27 anni o a 30 anni, perché l’idea di una vita regolare, normale, sembra insensata e insopportabile. Una fase che, con l’avanzare dell’età, molti trovano addirittura impensabile.

Esiste però anche un’altra dimensione, la quarta. Che è quella dell’apprendimento, quella in cui l’uomo trova il massimo della sua completezza, il massimo della sua forza, il massimo del suo significato. Nietzsche diceva che «l’unico senso possibile è il non senso». Ebbene, io umilmente dico che «l’unico senso possibile è cercare il significato che va oltre senso e non senso».

L’esistenza è breve, e ci è stata donata questa occasione. Siamo esseri fatti di carne e sangue, ma anche di anima. O se volete di spirito. O se volete di quella cosa che va oltre la pura fisicità, quella cosa che ci rende luminosi, vitali, che anima la materia in cui abitiamo, che ci spinge sempre a seguire i nostri sogni.

Il maestro è lui, quello che scava nell’animo dell’allievo e mostra al mondo il bellissimo fiore del suo sogno.

Alla fine tutti, anche quelli che pensano di non avere un sogno, hanno avuto un maestro, un parente, il padre, la madre o magari un saggio nonno scorbutico.

E sono i maestri a farci capire che un’anima è composta da sogni, e che i sogni sono quello di cui veramente necessitiamo. Ma anche che le nostre radici non devono mai scomparire, non si devono mai abbandonare, non si devono mai dimenticare.

Oriente significa creazione, evoluzione e mutamento, ma anche ferma consapevolezza che «le radici di un albero sono la parte che sta sotto la terra, ma portano la linfa vitale alle nuove foglie».

 

«Io ho sognato un Giappone unificato in una nazione forte, indipendente e moderna e ora noi abbiamo ferrovie, cannoni e abiti occidentali. Ma non possiamo dimenticare chi siamo, né da dove veniamo».

Imperatore Meiji

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