Matematica d’Oriente: i numeri arabi. No, indiani!


Tutti i popoli hanno posseduto una numerazione, intesa come modo di scrivere i numeri. La necessità di poter rappresentare rapidamente e con comodità le grandezze è stata, almeno all’inizio, legata all’ambito del commercio: pesi, quantità, misure, denari. Alcune numerazioni erano molto efficaci; altre più macchinose, come quella romana. Le più erano accomunate da un elemento: il valore di una cifra è indipendente dalla posizione che occupa. Prendendo l’esempio dei romani, per essi I vale sempre uno, V sempre cinque, X sempre dieci, ovunque si trovino. Forse è anche per questo che nella millenaria storia romana non ci sia stato un matematico. Degno di questo nome, almeno.
Nella numerazione posizionale, adottata attualmente, è tutto l’opposto: il valore di una cifra dipende dalla posizione che occupa nel numero. È una buona immagine della società, allora come adesso; il valore dipende dalla posizione che si occupa: più si è in alto nella società (a sinistra nel numero), più si acquista rilievo, valore. Un uno prima di tre zeri, 1000, vale più di tre nove, 999. Un nano seduto sul graduino più alto è più alto di un gigante in piedi su quello più basso (antico proverbio arabo).

A questo punto, l’interrogativo è: di chi è stata la brillante idea di inventare la numerazione posizionale? Di Brahmagupta.

Brahmagupta, celebre nella cultura araba con il nome di Sindhind, ha inventato quelle dieci cifre con le quali facciamo i calcoli tutti i giorni: eka, dva, tri, catvar, panca, sast, sapta, asta, nava. E sunya. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove. E lo zero.
In sanscrito sunya significa vuoto. Lo zero è rappresentato da un piccolo cerchio, ma il motivo di questa scelta grafica non si conosce con precisione (nota*). Però si sa che, tradotto in arabo, sunya diventa sifr; che, tradotto in latino, diventa zephirum; che, in italiano, dà luogo a zefiro. E da zefiro a zero il passo è breve. Invece il nome arabo dello zero, sifr, diventa l’appellativo per indicare tutte le cifre: sifr = cifre.
Quelle dieci cifre costituiscono i tasselli base per scrivere i numeri e fare i calcoli: la numerazione decimale posizionale può e deve essere ritenuta una delle invenzioni più importanti della storia dell’umanità.

Concentriamoci ora sullo zero, il nulla che tutto può. L’idea geniale alla base dello zero è il voler indicare con un simbolo la mancanza di qualcosa. Un’idea simile era già venuta ai Babilonesi, i primi a introdurlo come un doppio segno a spina di pesce inclinato.

Anche i Maya inventarono una cifra zero, nel loro caso un ovale in orizzontale che rappresentava un guscio di lumaca.
Poi arrivarono gli indiani. Ciò che ha reso “grande” lo zero indiano, che lo ha differenziato dai precedenti, è stato il fatto di essere elevato da “semplice simbolo di interpunzione” a vera e propria cifra, inserita nelle varie operazioni con precise regole.
La definizione di zero è: ciò che si ottiene da una quantità sottraendovi la stessa, n-n=0; lo zero è poi invisibile nell’addizione n+0=n; micidiale nella moltiplicazione nx0=0; proibito nella divisione n/0=?#!; riduttivo nell’elevamento a potenza a^0=1, con a ≠ zero.
La numerazione indiana compì un autentico prodigio, ancora più dell’alfabeto: con una manciata di segni, tanti quanti le dita delle nostre mani, rese possibile scrivere tutti i numeri del mondo. L’idea era così geniale e innovativa che è stata esportata in tutto il mondo, e ancora oggi è utilizzata. Di lingue e alfabeti, invece, ne abbiamo una Babele.

Il dubbio legittimo che ora sorge è per quale motivo conosciamo come numeri arabi le cifre che invece sono state inventate dagli indiani, in India.
Quando le cifre arrivarono dall’India all’allora capitale dell’impero arabo Baghdad (se ne trova menzione dal IX secolo, secondo Wikipedia) , probabilmente attraverso commercianti, gli arabi le chiamarono “figure indiane”. Alcuni studiosi arabi ne tradussero la trattazione, il loro utilizzo. Secoli dopo, la trattazione in arabo venne tradotta in latino e diffusa in Occidente: Italia, Francia, Germania, Europa insomma. Poiché è stato grazie alla mediazione araba che i cristiani le hanno conosciute, le hanno battezzate cifre arabe e hanno dichiarato che lo zero fosse un’invenzione araba. Ecco un esempio di come gli occidentali spesso si arroghino il diritto di imporre nomi alle cose, anche se erroneamente.

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(nota*) Il brillante lavoro dei matematici indiani venne trasmesso ai matematici arabi ad ovest. Ibn Ezra, nel dodicesimo secolo, scrisse tre trattati sui numeri: il “libro dei numeri” descrive il sistema decimale posizionale da sinistra a destra. In questo lavoro Ibn Ezra usa lo zero, che chiama galgal (che significa ruota o cerchio).
Le idee indiane si diffusero però anche a est, in Cina. Nel 1247 il matematico Cinese Ch’in Chiu-Shao scrisse un trattato matematico in nove parti in cui usa il simbolo 0 come zero. Un po’ dopo, nel 1303, anche Zhu Shijie, altro matematico cinese usa il simbolo 0 come zero.

Fonti:
Il teorema del Pappagallo, Denis Guedj
http://www-history.mcs.st-and.ac.uk/HistTopics/Zero.html

2 Commenti

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  1. Fabio Pirola

    Consiglio a tutti, sul tema, “Da zero a infinito” di John D. Barrow… un libro sulla storia dello zero e del nulla più in generale. Molto interessante.

    • Simona

      Caro Fabio si è un libro quello da 0 a Infinito che consiglio anche io!
      Ora dovrò andare a rileggerlo perchè l’ho fatto molti anni fa. Ma non so se puoi aiutarmi.
      Avendo visitato l’Alhambra in Spagna ricordo una spiegazione circa l’ossessiva copertura di ogni spazio come ricondotto al concetto di evitare lo 0, evitare spazi vuoti, perchè lo 0 non era conosciuto o per qualche altro motivo. Puoi aiutarmi a ricostruire questa spiegazione?

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