La politica dei nuovi partiti
Le vicende politiche del nostro paese dai primi anni novanta a oggi sono state caratterizzate da una vera e propria proliferazione di nuovi partiti. Ancor più spesso di vecchi partiti che si sono sciolti salvo riaggregarsi sotto nuove denominazioni. Dall’odissea post-comunista alla diaspora democristiana e socialista, l’italica risposta rispetto ai cambiamenti che tra gli anni ottanta e novanta hanno rivoluzionato il mondo uscito dalla seconda guerra mondiale si è ridotta a una girandola di nuovi nomi.
PDS, DS, CCD, CDU, UDC, Margherita, Alleanza nazionale, Rifondazione comunista, Forza Italia, PDL, Lega nord, PD: una vera e propria galassia di sigle, costituite da formazioni politiche che mediamente esaurivano il ciclo di vita del proprio nome in 2 legislature. Un quadro che per chi non ha vissuto da spettatore direttamente coinvolto la seconda repubblica sembrerebbe sintomatico di grande instabilità politica, nulla di più lontano dalla granitica dicotomia Dc-PCI protrattasi per quasi 30 anni. E invece no, numeri alla mano scopri che Silvio Berlusconi è stato il presidente del consiglio in carica per più tempo in tutta la storia repubblicana e si piazza addirittura terzo, dietro a Mussolini e Giolitti, se si stila la classifica di chi ha governato di più il paese da quando esiste l’Italia unita.
Addio ai governicchi balneari di tre mesi dalla prima repubblica, in questi vent’anni i partiti camaleonti hanno fatto terminare anzi tempo solo due legislature e i governi più brevi sono durati almeno un anno (Amato, Dini, Ciampi). Dunque, a dispetto delle evidenze formali, il sistema politico della seconda repubblica appare quantomeno aver centrato l’obiettivo di governare con stabilità il paese. Eppure la girandola di nomi e sigle rimane anch’essa come un dato di fatto. Per capire come questi partiti dal ciclo di vita stagionale o poco più siano riusciti a dar vita a un sistema politico stabile, in cui la classe dirigente non ha vissuto per altro nemmeno un passaggio di ricambio vero, bisogna affidarsi a un’analisi delle più importanti tornate elettorali degli ultimi dieci anni.
Forza Italia, fresca di fondazione non che di discesa in campo di Berlusconi, alle elezioni del 1994 fa il pieno di consensi con il 21 per cento. Il grande sconfitto, ovvero il PDS che non è un soggetto politico nuovo ma solo, si fa per dire, il PCI di nuova denominazione post-comunista centra un buon 20 per cento. Soffre chi cambia poco e continua a essere identificato come soggetto politico tradizionale come il partito popolare, 11 per cento o il partito socialista, 2 per cento. Le elezioni successive del 1996 vedono un relativo assestamento dei soggetti politici comparsi nel 94, eccezion fatta per i partiti di centro. I partiti più in difficoltà nel 94 abbandonano definitivamente la vocazione tradizionale, non lasciandosi scappare la tendenza di rinnovamento di stagione: il bipolarismo. Gli epigoni partitici della vecchia DC si sgretolano per arruolarsi chi a destra chi a sinistra del nuovo muro di Berlino che questa volta passa da Arcore.
E naturalmente si cambia nome: CCD e CDU per l’ala berlusconiana, mentre il PPI, che poi diverrà La Margherita, da vita a liste che sostengono Prodi. La novità vera per l’elettore è però quella di veder disciogliere il partito basileus della prima repubblica, che a urne chiuse si sceglieva alleati e costruiva governi, in un sistema di due coalizioni rigide e pre dichiarate. È cambiato tutto: i partiti sono come giocatori di calcio, inseriti in una delle due squadre che si contendono la partita. E come nel calcio è la squadra che conta non il singolo. Del resto Berlusconi dichiara di schierare il suo polo con le tre punte (fini, casini e bossi), mentre l’ulivo di Prodi è tacciato da tutti di essere una squadra piena di solisti. Sembra tutto rinnovato, il sistema funziona: solo pochi irriducibili gatto-pardi come Clemente Mastella sfidano ancora le burrascose maree che conducono da un polo all’altro, si cambia persino ricordandosi del potere taumaturgico dell’alternanza al governo tra i due schieramenti. La classe politica emersa o rimasta a galla nel 1994 che ormai ha stabilizzato il sistema rimarrebbe l’unico elemento da rinnovare ma ecco il colpo di scena. Siamo nel 2006 e un nuovo mulinello di sigle si abbatte sul nostro sistema politico. Questa volta il vento del cambiamento spira dal litigioso centro sinistra. Per rispondere al processo di balcanizzazione in atto nel centro-sinistra italiano arriva il Partito Democratico.
Progetto politico ambizioso il PD unisce le due grandi culture politiche e partitiche tradizionali italiane, quella comunista e quella democristiana, presentandosi come un partito americano. Ce ne sarebbe da mandare in confusione tutti, elettori compresi ma Silvio Berlusconi no. La girandola del nuovo è iniziata e lui non può non essere da meno. Da un predellino di un’ automobile annuncia la costituzione del PDL. Il resto è cronaca. Le elezioni del 2008 premiano ancora una volta i nuovi soggetti politici, facendo pensare persino a un sistema bipartitico fino a quando la crisi e il malcostume gettano politica e partiti nel fango. E la crisi sembra irreversibilmente portare alla deflagrazione dei partiti nati dalla seconda repubblica delle novità, ad eccezione del PD che sembra trovare nella sua vecchia cultura politica di democrazia interna gli anticorpi per non esser spazzato via.
Ciò che sembra però giunto al capolinea definitivo è la capacità dei partiti di conquistarsi l’entusiasmo dell’elettorato attraverso novità diverse dalla tabula rasa.
La vicenda dei partiti camaleonte ci è servita a dimostrazione che, per quasi vent’anni, la spasmodica ricerca del nuovismo sia a livello formale che di sistema politico ha strutturalmente sopperito alla mancanza delle ideologie. In questa seconda repubblica la politica come arte, tecnica di governo e scienza delle decisioni ha potuto mantenere vivo un contatto con i cittadini mobilitati e resi partecipi rispetto ad essa solo attraverso l’appeal del nuovo. La speranza nella novità, nel cambiamento ha strutturalmente sopperito alla consunzione di quei principi guida per la promessa di trasformazione della realtà che erano le ideologie.
Pare oggi che però anche la farsesca epopea del nuovo sia giunta a fine corsa. L’etica dei principi non può essere sostituita da nessuna strategia di marketing. Sembra proprio giunto il momento che la politica chiuda l’era del nuovo e si torni a quella delle idee. Vecchie o nuove purché ci siano.
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