La nuova vita della virtù: la rinascita dell’uomo


Ci sono molti modi di intendere una “vita nuova”. Ad esempio, non tutte le vite nuove sono fatte di esteriorità e di cambiamenti improvvisi. Alcune sono interiori, e l’opportunità di viverle si presenta in maniera inesorabile, come una chiamata a prendere o lasciare. Di più, alcune vite nuove non si presentano una volta per tutte, ma giorno per giorno. Alcune vite nuove sono travolgenti e radicali come la nuova vita di Dante, e guardano al più profondo della nostra natura.

Così è per la vita che viene proposta dall’uomo forse al culmine della filosofia etica greca, Aristotele: la vita dell’uomo virtuoso. Cos’è la virtù? Essa è una disposizione acquisita con l’esercizio a fare il bene. “Virtù”, infatti, per i greci è un termine al confine tra la capacità nuda e cruda, propria di uomini animali e cose, e la caratteristica etica (le due sfumature, se ci si fa attenzione, restano anche nella nostra lingua: “le virtù dell’uomo giusto”, ma anche “le virtù del ferro”). Essa è la capacità, ottenuta con l’esercizio, di muovere le proprie azioni nel giusto, nel mezzo perfetto che passa tra due opposti di disordine: è attitudine a fare gesti di coraggio che non sono né viltà ne temerarietà, gesti di generosità che non sono né avarizia né prodigalità, e così via. L’uomo virtuoso acquisisce così una seconda natura, una vita nuova, di cui vogliamo qui parlare.

Bisogna dire che per Aristotele la virtù non è qualcosa direttamente naturale all’uomo: cioè non ci si nasce, nessuno nasce con la virtù dentro di sé. Questo non si può negare: i bambini hanno bisogno di un’educazione morale. Allo stesso tempo, però, i bambini hanno anche un’intuizione morale fondamentale, che sviluppano anche da soli crescendo; non si tratta di un’affermazione infondata, in quanto essa è sostenuta da studi scrupolosi: Hauser, scrittore di Menti morali, ha scoperto infatti che la mente umana è dotata della capacità di guadagnare una “grammatica morale”, e cioè che essa ha una sorta di predisposizione analoga a quella posseduta per l’apprendimento del linguaggio (gli studi di Hauser sono infatti per certi versi simili a quelli del famoso linguista Noam Chomsky). La virtù, dunque, non sarà naturale, ma è senz’altro connaturale all’uomo. Dice il Filosofo: «Non è per natura né contro natura che le virtù nascono in noi, ma ciò avviene perché in natura siamo atti ad accoglierle, e ci perfezioniamo, poi, mediante l’abitudine». E aggiunge poco dopo, riguardo all’apprendimento delle virtù e delle capacità in generale: «Le cose che bisogna aver appreso prima di farle, noi le apprendiamo facendole», cioè con la pratica.

Il discorso è noioso? Può esserlo, ma vale la pena tentare di mettersi nella sua ottica. Quello che Aristotele ci sta dicendo, è che la morale non è un insieme di norme astratte buttate là non si sa bene perché; essa non è una legge imperativa che richiede un’obbedienza dovuta perché dovuta (Kant), né rappresenta un manuale di convivenza sociale (Rawls). La morale è quel pensiero che contempla la virtù come possibilità dell’uomo, dentro l’uomo, di giungere con il nudo ripetersi delle azioni alla felicità: quella felicità che viene dalla proporzione e dalla corrispondenza a se stessi per chi si è. La virtù è infatti la responsabilità affidata a ciascuno, in quanto libero e razionale, di essere leale verso sé e realizzarsi con le proprie scelte, nel contesto della vita pratica, dell’amicizia, della Città. È il fatto più universale della vita umana, e allo stesso tempo è la cosa più personale; è privata, perché propria, e pubblica, perché volta da ultimo anche al bene altrui. La virtù nel senso aristotelico è insomma una via da intraprendere, alla cui origine è come se stesse questa proposta: vuoi assumere una vita nuova, che ti corrisponda?

Soffermarsi su un modello etico come questo, piantato con i piedi ben in terra e volto con gli occhi in avanti, alla ricerca della piena natura umana, è ancor più importante se si pensa che si tratta di un modello completamente estraneo alla nostra mentalità d’oggi. Il motivo di questa alienità c’è, e risale al lavoro svolto dal pensiero etico di cui siamo figli, quello moderno. La cultura morale che ci fa da sfondo è infatti spesso una cultura in cui si perde l’obiettivo dell’agire etico. Perché dovrei essere virtuoso? La risposta spontanea, ma non scontata, è: per essere felice. La paura dei pensatori moderni fu che questo rappresentasse un fine interessato, e la loro idea fu che la morale dovesse giustificarsi in se stessa, o nelle scelte arbitrarie dell’uomo. Il problema è che in questo modo viene meno la struttura stessa dell’etica: da una parte vengono un insieme di norme, dall’altra la loro giustificazione, e il fine viene meno. Tutto questo è messo in rilevo con gran chiarezza da un altro grande filosofo etico che riprende la concezione aristotelica di virtù, Alasdair MacIntyre (il testo di riferimento è Dopo la virtù).

Certo, lo smaliziato lettore del giorno d’oggi potrà ribattere che non si può porre un fine universale, pena la perdita di libertà di pensiero. Non è però una critica ben mirata.

La ricerca della “vita nuova”, della “seconda natura” acquisita con l’esercizio non è infatti una questione di verità metafisica staccata dal reale (Aristotele anzi critica il suo maestro Platone per questa concezione del Bene). È una lotta, un cammino d’equilibrio coi piedi nel fango, giorno dopo giorno; la felicità non è una luce astratta posta come fine, ma l’effetto collaterale all’agire giusto, che è buono di per sé. Il fine della ricerca di questa vita, è la vita stessa: l’acquisizione della virtù è il diventare davvero uomini e donne, e uomini e donne – qui lo si può dire senza che sia un’affermazione a caso – di valore.

 

Se riesci a parlare con la folla e a conservare la tua virtù,
E a camminare con i Re senza perdere il contatto con la gente,
[…] Se riesci a occupare il minuto inesorabile
Dando valore a ogni minuto che passa,
Tua è la Terra e tutto ciò che è in essa,
E – quel che è di più – sei un Uomo, figlio mio!

Rudyard Kipling

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