Le tessere del mosaico


Il buio non esiste a Shibuya: una miriade di insegne sovrasta le strade in cui la folla si muove con lo stesso automatismo di uno sciame d’insetti.
Una ragazza assiste a questa scena impressionante dall’alto di un cavalcavia.
L’umidità che pervade la metropoli scende sottoforma di gocce pregne d’elettricità e fa apparire l’ambiente circostante come suddiviso in minuscoli pixel.

Mosaico è un romanzo di Taguchi Randy, già nota per Presa Elettrica. Nelle sue opere, l’autrice parla di otaku, delle vittime del karōshi, ma soprattutto degli hikikomori.

La protagonista del libro – il cui nome è Satō Mimi – si immette nel fiume di persone che è il quartiere in quel momento, ne aspira l’afrore e nota come la gente che la circonda, data la quantità e la distanza minima tra un corpo e l’altro, non le sembri possedere alcun requisito umano.

A un certo punto, un ragazzo ferma Mimi e le chiede di poter pregare per lei. Lo fa con una voce flebile, molto simile a un belato; il suo atteggiamento rivela una debolezza che si è impossessata prima della mente e poi del corpo, lasciando i segni della sua inibizione anche nella voce.

Mimi, con poche domande, riesce a scoprire la sua storia: il ragazzo ha sempre sofferto d’asma; dopo ripetuti attacchi di panico in luoghi pubblici, aveva deciso di rifugiarsi tra le mura domestiche, al riparo dal mondo esterno. Nella sua stanza, però, non riusciva a dare un senso alle giornate che passavano, finché non ha incontrato Dio, tramite una setta. Da allora non teme la folla: attira l’attenzione di qualche passante e inizia a pregare per lui con fervore, perché è questo il ruolo che la congrega ha scelto per lui.

Sentirsi parte di qualcosa: è questo lo scopo. Non solo del ragazzo, ma anche di tutti quelli che, circondati da centinaia di persone, si aggrappano a cellulari, computer, videogiochi e cercano un contatto con qualcuno o qualcosa che li faccia sentire ancora vivi. Non importa se l’ambiente in cui cercano le connessioni sia virtuale, perché ciò che resta è la sicurezza che il contatto avvenga, mentre nella realtà è tutto molto più sfuggevole e fallimentare.

Dopo questi incontri bizzarri, il romanzo prosegue con la storia di Mimi, a partire dai suoi vent’anni, trascorsi al capezzale della nonna in coma, con cui parlava ogni giorno, nonostante si sentisse impotente di fronte al silenzio che seguiva a ogni suo discorso.
In quello stesso periodo incontra Seta Hatsune, un’infermiera che segue sua nonna e la rassicura del fatto che la voce, se ben modulata, può essere percepita anche dai pazienti in condizioni critiche, perché in fondo essa non è altro che una forza: una forma di energia proveniente dall’interno, per questo in grado di stabilire un contatto anche con chi non è più in grado di rispondere.
Seta ha una teoria tutta sua anche sui rapporti umani: per lei, quando si conosce una persona, bisognerebbe eludere sé stessi, dimenticare le esperienze passate, perché solo così ci si può sintonizzare sulla stessa lunghezza d’onda.

Le dice: «Mimi, se vuoi diventare davvero forte,[…] devi comprendere fino in fondo cosa significa andare d’accordo con qualcuno, […] perché in questo modo potrai diventare una cosa sola con la persona che ti sta di fronte e sarai capace di condividerne appieno il punto di vista. Potrai dunque provare le sue stesse sensazioni e gli stessi sentimenti. Potrai, in altre parole, immedesimarti completamente nell’altro. E, se infine riuscirai a tenere sempre in massima considerazione i sentimenti dell’altro, la parte di te a cui avrai rinunciato ti permetterà di diventare finalmente più forte».1

Dopo aver conosciuto Seta, Mimi si iscrive ad una scuola professionale per infermieri e nel giro di poco tempo svolge questo lavoro all’interno di un istituto psichiatrico, dove resta affascinata dai movimenti dei pazienti, che sembrano regolati da criteri inconsueti.
Gli esseri umani sono attraversati da impulsi e la loro forza viene modellata da un fiume sotterraneo di sensazioni che si espandono dalla mente al corpo. Reti neurali che s’intrecciano come i microchip all’interno di un computer.

La protagonista è una donna forte, che ha fatto parte dell’esercito giapponese e dà il meglio di sé in campo lavorativo, soprattutto quando viene ingaggiata da un’impresa di “trasferimenti” per accompagnare pazienti affetti da patologie psichiatriche nelle apposite strutture.

A Mimi ora viene affidato il compito di trovare Masaya, un giovane fuggito di casa e con un passato da bambino indaco che, prima di scappare, ha trascorso gran parte del tempo nella sua stanza, evitando qualunque contatto con le persone, che non gli sembrano nient’altro che macchine scarta-verità.
Masaya si isola per proteggere la sua soggettività e, certo che il mondo stia per finire, si convince che il fondo di Shibuya si staccherà a causa del sovraccarico di energia.
È una convinzione che ha a che fare con la sua realtà interiore, che è talmente acuta da percepire la sordità a cui sono soggetti gli individui che popolano il suo mondo.

Questo ragazzino s’investe del peso di una missione – scoprire cosa stia accadendo nel fondo di Shibuya – solo perché ha bisogno di preservare il suo io e di far combaciare le tessere di un mosaico che diventa sempre più complesso e fonte di estrema inquietudine.
Masaya, in fondo, ha solo paura di crescere, “ha paura che, diventando grande, finirà col perdere quel mosaico” che è il mondo, fatto di verità contrastanti, su cui nessuno vuole soffermarsi.

Mosaico è un libro in cui si intrecciano due reti: una urbana e sotterranea, formata da dispositivi collegati tra loro; l’altra umana, arricchita dai ricordi e da tutte le impalpabili forme di sintonizzazione che permettono di raggiungere l’empatia e di differenziarci dai cyborg che popolano l’immaginario del futuro.

 

1, 2: Randy Taguchi, “Mosaico”, Fazi Editore, Roma, 2008, trad. Gianluca Coci (pp. 45, 364).

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