Sociologia dell’iPad


La tecnologia è uno dei temi fondamentali di cui si discute oggi, spesso con giustificata gravità. Tuttavia, l’eccessività di certe raffigurazioni “apocalittiche” della tecnologia odierna è da ricondursi a visioni ideologiche più che a vere argomentazioni di carattere antropologico. Mi riferisco alle posizioni di chi vede nella post-moderna téchne il supremo mezzo di controllo totalitario delle masse e/o il responsabile di un ricambio generazionale dalla marcata decadenza.

La prima di queste due idee, con specifico riferimento alla tecnologia, risale in realtà alla Guerra Fredda, ma il tema è più antico e vasto, segnale di una problematica di più ampio respiro. Foucault afferma che la costruzione di gerarchie di potere, disciplinari e di controllo della società è una costante fondamentale dell’umanità di ogni tempo e spazio, che trova innumerevoli strumenti di espressione quasi mai, però, costruiti ad hoc da pochi diabolici “eletti” (con buona pace dei complottismi), risultando invece tanto più efficaci quanto più diffusi, capillari, elastici e continuamente rinegoziati a livello individuale: totem e tabù, per usare una formula di Freud.

La tecnologia può insomma essere vista come un mezzo, uno dei tanti, attraverso cui si esplicano innumerevoli e spesso conflittuali strategie di controllo e di potere, ma il “colpevole” in ogni luogo e tempo è l’uomo stesso, che non può mai fare a meno di costruire culturalmente tali strategie: fa parte del suo essere animale sociale, collettivo. Non è l’iPad in sè a rendere i ragazzi dipendenti da abitudini di pensiero, comportamento e consumo imposte dall’esterno: è l’uomo artefice di cultura a farlo, e se non ci fosse l’iPad lo farebbe con qualcos’altro, come ha fatto per tutto il tempo in cui l’iPad non c’era.

Oggi, rispetto al passato, il computer ci segue ovunque andiamo. Ridotto alle dimensioni di un foglio, ci si pone davanti non più come una diavoleria sofisticata e specialistica per certe mansioni, chiamata con nomi complessi (un word processor, un memex), ma come qualcosa di semplice, minimalista, che non ci nasconde nulla e che ci è amico (user-friendly, appunto). Un tablet, un iPad, un iPhone: un io-qualcosa, che più che essere una mia proprietà, mi è talmente intimo da essere una parte di me, una mia appendice.

Questa è stata, alla fine, la grande rivoluzione di Steve Jobs, partita quando sopra i suoi personal computer montava delle maniglie. Non è che il computer si potesse devvero spostare grazie a quelle maniglie, ma nondimeno esso si offriva per essere spostato: sono qui, sono tuo, ti sono familiare come una poltrona, uno sgabello, uno scaffale, non sono un intruso e faccio parte dei tuoi più intimi momenti quotidiani.

E se la rivoluzione di Jobs sdoganava il computer portandolo dai laboratori di Harvard al bar di provincia (il caffè è più gustoso se mentre lo beviamo facciamo scorrere le dita sul nostro i-Phone), nel frattempo Bill Gates, Tim Berners Lee, Ted Nelson e altri provvedevano a riempire i nostri nuovi amici di veri e propri cores cultural-tecnologici: hypertext e http, world wide web, coordinati da semplici interfacce grafiche “punta e clicca” che ci portano con gli occhi e con le orecchie (da soli o in compagnia, digitale o reale) ovunque nel mondo, istantaneamente.

Ed ecco che si capisce perché la demarcazione tra chi ha accesso alla Rete e chi no, il digital divide, assume oggi una gravità quasi clinica: è come se mancasse un organo sensoriale, il cui impatto sulla società è culturalmente soverchiante. Non sbaglia chi vede nell’iper-connessione iper-accessibile garantita dalle nuove tecnologie una flotta ammiraglia della globalizzazione nei Paesi emergenti e un veicolo di liquefazione della società, secondo quanto argomentato efficacemente da Bauman.

Visioni e morali univoche sembrano ormai impossibili in un mondo che ci troviamo a circumnavigare, rapidissimi, guardando dal finestrino del nostro tablet: non ci sono più regole forti, quindi si indeboliscono i presupposti di vecchie gerarchie religiose e politiche. Tutti i rapporti si precarizzano, perdendo unicità e sacralità. La liquidità multi-core sembra regnare rispetto a un “prima” ordinato e solido: il presente è fluido, discontinuo, interrotto e l’identità è un patchwork mutevole e improvvisato come un desktop.

Non esistono però i presupposti per definire questa trasformazione sociale positiva o negativa in sé, così come non si può definire positiva o negativa in sé una collisione di stelle: c’è e basta, perché il suo moto parte da lontano, dalla lotta millenaria dell’uomo per abbattere gli ostacoli spaziali e temporali della natura che lo portarono alle prime conserve e alle prime strade. Un tablet, che oggi ci permette di mantenere in memoria instantgram di momenti altrimenti divorati dalle stagioni e di video-chiamarsi con un amico distante un continente e due oceani, non è forse l’ennesimo, raffinato e momentaneo risultato di un desiderio più antico e, in definitiva, inestinguibile?

4 Commenti

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  1. Lorenzo

    L’ignavia non è mai stata elogiata, che io sappia, come una virtù necessaria alla conoscenza, anche se oggi entro certe discipline va assai di moda. Aggiungo, perdonami la schiettezza, che la banalità del tuo articolo sta lì a testimoniare a favore della falsità di ciò che sostieni. Inoltre esprime proprio quello che ritieni essere oramai impossibile oggi: “una visione e morale univoca”.

    Ps. Si scrive Instagram, credo

    • Eugenio Conti

      Instantgram è una storpiatura voluta, anche se devo ammettere che è un pelo criptica (Instant + gram, tempo caduco e solida massa).
      Per il resto, perdonami la schiettezza, il tuo commento è assai povero di argomentazioni, dunque non so proprio come risponderti. Magari potresti spiegarmi dove secondo te affermo che l’ignavia sia necessaria alla conoscenza, cosa secondo te sostengo in generale e perchè sia falso e dove esprimo, nel testo, una visione morale univoca su qualcosa.

  2. seorimícuaro

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