La guerra e la ragione: il paradosso della guerra tecnologica
Da quando l’umanità ha memoria di sé stessa gli uomini si sono fatti guerra. E dalla prima guerra di cui si ha memoria fino ad oggi gli uomini hanno impiegato la propria ragione per uccidersi a vicenda. Dall’ingegno del cavallo di Troia alle grandi battaglie di materiali della Prima guerra mondiale fino a giungere a quella post-moderna dei droni, la guerra è tra i fenomeni umani quello che riesce a mostrarci con maggiore nitidezza il carattere strumentale della ragione.
La maggior parte delle tecnologie entrate a far parte della nostra quotidianità sono state in principio pensate e sviluppate ad uso militare: basti pensare ad internet per citare il più famoso degli esempi. La guerra è da sempre volano della tecnica. Ma ancor più dell’umana ragione. Persino lo Stato, il più grande tentativo d’impresa razionale al quale l’uomo si sia mai auto-sottoposto, può considerarsi un’istituzione tesa a creare uno spazio di vita associata in cui gestire primariamente la violenza. Così da tentare di razionalizzarla da un lato ma anche di incrementarne potenzialità ed efficienza dall’altro. Si potrebbe dire che lo Stato è nato e cresciuto tanto per assecondare il bisogno di sicurezza degli individui quanto per soddisfare un altro loro primario bisogno: quello di farsi la guerra.
Dunque la tecnica, spirito dei nostri tempi, il più puro condensato dell’umana ragione, non risulta abbastanza razionale da darsi essa stessa uno scopo proprio. Non risulta essere nulla di più che un protocollo che permette agli uomini di fare in maniera perfettamente razionale ed efficiente ciò che di più irragionevole la loro natura gli comanda: uccidersi.
La cronaca dei nostri giorni ci restituisce quotidianamente notizie di sanguinose guerre sparse per il mondo. Conflitti a bassa intensità, massacri giornalieri che hanno perso perfino lo status di notizia. Guerre di cui probabilmente conosciamo l’esistenza solo perché gli episodi più eclatanti vengono citati di sfuggita da qualche telegiornale.
Della guerra non si parla più. Perché la guerra, quella che immaginiamo noi, quella che farebbe notizia, non esiste più. Uno scontro di popoli condensato in grandi battaglie, lo spirito della Storia che avanzava: questa guerra, ammesso che sia mai esistita, ormai vive solo nel nostro immaginario collettivo. Ha ceduto il posto alla grande illusione della guerra tecnologica. Droni telecomandati da navi in alto mare, missili intelligenti e scudi spaziali: questi sono i nuovi protagonisti della guerra che il progresso tecnico ci lascia immaginare.
Il sogno antico e futuristico allo stesso tempo che la tecnica ci promette è quello di una guerra non più combattuta da soldati in prima persona. La promessa per chi possiede la tecnologia è quella di trasformare i conflitti in grandi videogames, in cui le operazione vengono portate avanti da macchine teleguidate. Perchè in questa guerra in cui gli uomini telecomandano macchine da oceani di distanza, la morte di chi il conflitto lo subisce in prima persona pare qualcosa a metà strada fra il virtuale e il contingente. Le stragi vengono catalogate tra i danni collaterali, errori di una bomba scordatasi di essere intelligente: comunque sia, dettagli. La stessa terminologia con la quale queste uccisioni vengono chiamate rivela come si tenda a marginalizzare la morte, a renderla un errore di calcolo, qualcosa che sicuramente il progresso tecnico sarà in grado col tempo di ridurre fin quasi a eliminarla.
Questo finché per le opinioni pubbliche non cessa la guerra tecnologica e inizia la guerra umana. Quella che non fa più notizia. Ora la guerra torna ad assumere le forme di sempre, in una quotidianità fatta di operazioni che un tempo si sarebbero chiamate di guerriglia. Ora, a tutti i coinvolti, la guerra continua a mostrare il suo contenuto irriducibile: la morte che non può essere razionalizzata da nessuna tecnologia.
L’unica modalità per eliminare la morte in questa fase diviene il silenzio. Trasformare la guerra, sempre che ci riguardi, in un freddo bollettino di attentati, da aggiornare come notizia per riempire spazi vuoti nelle cronache giornaliere. Lo stesso dramma di aver vissuto il conflitto in prima persona viene amplificato e diviene spesso insostenibile per l’individuo, perché l’avvenimento-guerra ha ormai perso il suo posto nell’immaginario collettivo. La comunità, infatti, percepisce la guerra come conflitto tecnologico, e al termine di esso la guerra si pensa finita. L’esperienza dei soldati direttamente impegnati nel conflitto resta un bagaglio di atrocità lasciata alla sola memoria individuale: così si spiegano le difficoltà di tanti soldati nell’elaborazione dei traumi vissuti.
Le esperienze del Novecento testimoniano come il trend imboccato dalla fisionomia dei conflitti tenda a presentare una spaventosa escalation nel numero delle vittime e delle violenze da essi innescate. Le guerre dal Novecento in poi hanno sempre più assunto i crismi che un tempo avevano definito le guerre civili. Non vi è più uno spazio – il campo di battaglia – in cui la guerra viene rinchiusa. Ogni limite è stato abbattuto, si combatte casa per casa, le fabbriche diventano i famigerati obiettivi sensibili, la guerra sembra essere fuggita dal vaso di Pandora ed essersi confusa con lo spazio della pace.
Si può combattere anche solo lavorando o mandando avanti una fabbrica che produce un additivo, un cappotto, dell’acciaio o un mitra. Questa è divenuta la guerra tecnologica, una guerra senza confini, una guerra che si perde dentro lo spazio della vita di tutti giorni, che si combatte anche in pace. Una guerra che mostra però la sua irriducibile irrazionalità, potente come non mai, nell’appuntamento con la morte. Questo è il vero contenuto della guerra che, a discapito della sua grande promessa razionalizzatrice, la tecnica non è riuscita ad eliminare, anzi ha solo reso più terribile. La guerra, a prescindere da ogni possibile progresso, resta e resterà la più dissennata decisione che l’uomo possa prendere, mentre la tecnica rimarrà sempre e solo la più assennata risposta alla domanda su come realizzare le umane scelte. Nessun progresso tecnologico potrà mai ridurre il contenuto di una decisione umana.
«Lo vediamo quest’uomo, ardito stratega e pensatore, meditare sulle possibili vie e i loro sbocchi: lo vediamo condurre le macchine nelle azioni belliche; guerriero, prigioniero, partigiano nelle sue città che ora divampano ora s’illuminano a festa. Lo vediamo, spregiatore di valori, freddo calcolatore ma in preda alla disperazione quando nel mezzo dei labirinti che si è costruito il suo sguardo scruta le stelle».
Ernst Junger, Il trattato del ribelle
La guerra non si è fatta tecnologica più di quanto non lo sia diventato ogni altro aspetto del vivere umano (costruire, comunicare, amoreggiare etc. etc.), solo che nella sua spietata sincerità (ovvero nel suo aspetto fondamentale di dire apertamente ‘io sono tuo nemico’ e cerco la tua morte) si avverte distintamente il suo esercizio tramite l’espediente tecnologico, e da qui la sua disumanità (ma non è più disumana della periferia di una grande città, anche se certo è ben più rischiosa). Tuttavia è un inganno ritenere che la guerra sia sempre stata in un solo modo, come (non) lo conosciamo noi oggi.