L’Oriente di Eugène Delacroix: luce, colori e poesia
Alla fine del XVIII secolo molti artisti europei compiono un viaggio di formazione in Oriente, cioè nell’area che si estende dal Nord Africa fino al Libano e alla Palestina. L’interesse per questi luoghi e per i loro abitanti trova giustificazione in circostanze politiche e culturali insieme: la conquista francese dell’Egitto e dell’Algeria e la caduta dell’Impero turco spalancano le porte di questo nuovo e affascinante mondo favorendo la nascita di una pittura orientalista. Artisti eterogenei per stile e scuola di appartenenza (Ingres, Vernet, Descamps, Fromentin, Pasini, Gérome, Chassériau…) realizzano quadri tecnicamente differenti, ma che hanno per soggetto il mondo colorato, dinamico ed esotico dei popoli africani e del Vicino Oriente: paesaggi con antiche rovine, oasi nel deserto, moschee, mercati, cavalieri beduini, harem…
Specialmente nell’ambiente romantico il gusto per l’Oriente diventa preponderante: ne è testimone indiscussa l’arte del grande pittore francese Eugène Delacroix (1798-1863). Già dagli anni Venti egli manifesta la sua attenzione per la Grecia e la Turchia attraverso una serie di dipinti nei quali ricrea le atmosfere silenziose degli interni delle case abitate da arabi (si pensi al Turco che fuma su un divano, 1825). A questi anni risalgono anche imponenti quadri storici di stampo orientale, ad esempio Il massacro di Scio (1824) o La morte di Sardanapalo (1827).
La vera svolta nella resa di questi soggetti si ha, però, solo nel 1832, anno in cui Delacroix parte per il Marocco e l’Algeria come membro della missione diplomatica del conte de Mornay. Dopo una sosta nella Spagna del sud, considerata l’anticamera dell’Africa per la sua architettura moresca e l’influenza della cultura araba, l’ambasciata si sposta a Tangeri (dove Delacroix osserva il complesso cerimoniale di corte) e poi a Meknes. Durante il viaggio l‘artista riprende la stesura del suo Diario e riempie diversi album di schizzi e acquarelli, oggi conservati al Louvre. Al ritorno in Francia queste annotazioni si riveleranno preziose per ravvivare il ricordo di luci, colori e atmosfere da riprodurre nei quadri di grandi dimensioni, spesso destinati al Salon.
Il viaggio in Oriente segna un momento cruciale nell’opera di Delacroix, poiché la visione della natura di questi luoghi e il contatto con le popolazioni autoctone stimolano le sue ricerche coloristiche e le sue riflessioni personali. Secondo l’analisi di Lalla Romano, il Diario di Delacroix non ha ambizioni letterarie, ma è la sincera registrazione delle sue esperienza e scoperte, utile per leggere la sua opera e capirne gli sviluppi.
Esso ci aiuta innanzitutto a comprendere come il viaggio arricchisca il suo approccio al colore e alla luce. Numerose sono le descrizioni dei paesaggi e dei personaggi che troveranno traduzione iconica nelle tele. Ad esempio, osservando le varie Fantasie Arabe, tornano alla mente le parole scritte da Eugène il 2 marzo presso Tangeri: «La corsa di cinque o sei cavalieri. Il giovane a capo scoperto, caffettano verde orina. […] Gli uomini illuminati sul fianco. L’ombra degli oggetti bianchi con molti riflessi azzurri. Il rosso delle selle e del turbante quasi nero». Il pittore è colpito soprattutto dai colori, dall’intensità e dal bagliore della luce equatoriale, dagli scontri di cavalieri beduini che definisce «pittoricamente meravigliosi».
Inoltre, a differenza di molti suoi contemporanei, Delacroix non cerca l’aneddoto esotico, ma vuole cogliere la bellezza e la dignità dei popoli che incontra durante il viaggio: «Tangeri, 28 aprile. Questo popolo è tutto antico. […] Essi sono più vicini alla natura in mille modi: i loro abiti, la forma delle loro scarpe. Così la bellezza va congiunta a tutto quello che essi fanno».
In Oriente Delacroix ritiene di aver ritrovato la bellezza antica: «L’antico non ha niente di più bello. L’aspetto di questa contrada mi resterà sempre negli occhi». Basta osservare il quadro raffigurante il sultano del Marocco all’uscita del palazzo di Meknes per ritrovare la nobiltà dei gesti degna di un quadro di storia.
Nelle opere ideate durante il tour, spesso magnificenza e grandezza si uniscono alla semplicità. Delacroix non è un cronista poiché non si limita ad una copia pedissequa o accattivante di odalische e aridi deserti, ma filtra gli elementi attraverso una sensibilità poetica unica che lo porta a raggiungere una bilanciata sintesi tra la riproduzione bozzettistica del reale e la resa indefinita e vibrante delle atmosfere. Ecco perché Fromentin, pittore e critico d’arte, lo descrive come il migliore degli Orientalisti: per lui Delacroix non è viaggiatore che dipinge spinto solo «dall’infausto istinto universale della curiosità», ma pittore che viaggia, dunque capace di osservare il particolare reale e rielaborarlo tramite la fantasia giungendo ad una sintesi nuova.
L’opera ispirata dal viaggio in Oriente testimonia la vicinanza di Delacroix alla sensibilità romantica che conferisce maggiore centralità all’immaginazione individuale dell’artista. Riprendendo la riflessione di Carolina Brook possiamo concludere che i quadri orientali di Delacroix non sono esercizio di virtuosismo pittorico, ma esprimono «una soggettività che ha cercato, nell’esplorazione di mondi diversi, nello spazio e nel tempo, le risposte alle proprie inquietudini e al proprio bisogno di conoscenza».