Per uno sport libero dalle “bombe”


«Fausto Coppi, tutti i corridori portano una borraccetta nella tasca posteriore dei calzoncini. Se vi domandano cosa contiene, come rispondete?». «Caffè, solo caffè». «Oppure?». «Peptocola, ricostituente». «E invece cosa contiene la borraccetta segreta?». «La bomba». «Le dispiace spiegare agli ascoltatori cos’è una bomba?». «Una bomba dovrebbe essere un paio di gambe di ricambio: è composta da ingredienti segreti, i più importanti sono la simpamina e la fiducia che la bomba funzioni». «Tutti i corridori prendono le bombe?». «Sì, tutti. E a quelli che dicono di non prenderne è bene non avvicinarsi con fiammiferi accesi». «Lei prende bombe, Coppi?». «Naturalmente, quando servono». «E quand’è che serve?». «Quasi sempre».

Sono passati 60 anni esatti da quando il “Campionissimo” Fausto Coppi rilasciò questa intervista radiofonica – riportata per intero in una puntata de “La storia siamo noi” – ammettendo per la prima volta al microfono di Sergio Giubilo l’esistenza nel ciclismo di quello che più tardi sarebbe stato chiamato “doping”, ovvero l’utilizzo da parte degli atleti di sostanze in grado di alterare positivamente la prestazione sportiva, pratica già allora diffusa ma portata avanti in modo rudimentale: nulla a che vedere con la “scientificità” delle tecniche dopanti degli anni successivi.

A fare “scuola”, in questo senso sono stati i Paesi dell’Europa orientale, in particolare la Germania dell’Est, che dagli anni Sessanta fino alla caduta del muro di Berlino sfornò a ripetizione atleti in grado di ottenere risultati eccezionali grazie agli steroidi anabolizzanti prodotti dalla Jenapharm e somministrati sistematicamente a ragazze e ragazzi sin dall’età di 11 anni. Sotto l’etichetta del programma “Komplex 08”, gestito direttamente dal governo e dalla Stasi, si nascondeva un vero e proprio doping di Stato. In un articolo pubblicato sul Corriere della Sera il 3 marzo 2005, Filippo Maria Ricci racconta anche della causa intentata da 160 ex atleti nei confronti dell’industria farmaceutica tedesca.

Con il doping i risultati arrivarono (144 ori olimpici conquistati tra il 1972 e il 1988), ma insieme ad essi non tardarono a farsi vedere problemi cardiaci, cisti ovariche, disfunzioni al fegato, cancro ai testicoli e al seno, infertilità, che colpirono centinaia di quegli atleti, molto spesso ignari dello speciale “trattamento” cui erano sottoposti. Con alcuni casi divenuti celebri, come quello della pesista e discobola Heidi Krieger, costretta a cambiare sesso in seguito agli squilibri ormonali e ai mutamenti che il suo corpo aveva subito per colpa degli steroidi.

La lotta al doping cominciò, in quegli stessi anni, proprio in virtù di una progressiva presa di coscienza dei danni provocati alla salute degli atleti, in particolare dopo la morte del ciclista danese Knud Enemark Jensen – poi risultato positivo alle anfetamine – alle Olimpiadi di Roma del 1960. Il primo laboratorio per l’analisi del sangue e delle urine degli atleti fu realizzato a Firenze nel 1961, le prime norme furono approvate in Francia nel 1963, la prima lista delle sostanze proibite fu pubblicata dal Cio in occasione dei Giochi olimpici di Città del Messico del 1968. I controlli si diffusero, arrivarono sanzioni e squalifiche per gli atleti sorpresi a imbrogliare. Nel 1988 ebbe grande clamore mediatico la vicenda del velocista canadese Ben Johnson, che si vide privato dell’oro olimpico nei 100 metri per essere stato trovato positivo allo stanozololo, uno steroide anabolizzante.

Dieci anni più tardi, un altro caso eclatante avrebbe segnato un punto di svolta fondamentale nel contrasto al doping: il cosiddetto “scandalo Festina”. Alla vigilia del Tour de France del 1998, un’auto della squadra ciclistica Festina fu fermata alla frontiera tra Belgio e Francia, carica di medicinali proibiti destinati ai corridori.

Fu l’occasione per un giro di vite. Il 1999 – anno segnato dall’esclusione dal Giro d’Italia di Marco Pantani a causa di ematocrito alto – vide l’istituzione della Wada, acronimo di “World Anti-Doping Agency”, organismo deputato alla messa a punto dei test, alla ricerca e all’educazione sul doping. Parallelamente, molti Stati cominciarono a dotarsi di una severa legislazione in materia. Tra i capifila c’è proprio l’Italia, con la Legge 14 dicembre 2000, n. 376: da allora nel nostro Paese il doping è un reato penale, punibile nei casi più gravi con la detenzione fino a tre anni.

Regole rigide, la cui efficacia rischia tuttavia di essere limitata. Lungi dall’essere diffuso solo tra chi pratica sport per professione, infatti, il doping è oggi un fenomeno che mostra un preoccupante radicamento soprattutto in ambito dilettantistico e amatoriale. Significativi in questo senso i dati presentati all’Istituto Superiore di Sanità lo scorso 17 maggio in occasione del convegno La tutela della salute nelle attività sportive e la lotta al doping.

Nel corso dei controlli effettuati nel 2011 dall’apposita Commissione di vigilanza (Cvd) del Ministero della Salute in occasione di 386 eventi sportivi non professionistici (con il coinvolgimento di 1.676 atleti) sono stati 52 i casi di positività registrati, con un’incidenza del 3,1%, quota che sale intorno al 10% in alcune discipline (pesistica, bodybuilding, hockey). La vera sorpresa riguarda però le classi d’età: quasi l’8% dei controllati oltre i 44 anni è risultato positivo, mentre si ferma poco al di sotto del 5% il dato della fascia tra i 24 e i 29 anni.

«C’è il paradosso – ha dichiarato in occasione del convegno il Ministro della Salute Renato Balduzzi – dell’atleta amatoriale che fa sport e dovrebbe guadagnare salute, invece si sottopone a rischi elevatissimi che sottovaluta. La lista di patologie che possono essere causate dal doping è lunghissima. Inoltre, c’è anche la difficoltà di spiegare alle nuove generazioni i corretti stili di vita da seguire, mentre l’atleta agonistico sa che il doping è reato».

Proprio sul fronte della prevenzione e dell’educazione si è lavorato molto in questi ultimi anni, sia con iniziative realizzate dal Ministero della Salute (Io valgo più del doping, La forza è già in te. No doping), sia attraverso attività promosse dagli enti locali in accordo con i centri regionali antidoping. Un esempio su tutti, la campagna di comunicazione Positivo alla salute della Regione Emilia-Romagna.

Tra il 2009 e il 2011 nell’ambito di questo progetto è stato realizzato un sito internet con un database delle sostanze proibite consultabile da tutti, sono stati diffusi materiali informativi e svolte attività di sensibilizzazione nelle scuole e in occasione di eventi sportivi, con il coinvolgimento di atleti di livello internazionale e un obiettivo ben preciso: «Dire no a tutte le sostanze che fanno male, riaffermando il valore dello sport come chiave di volta per la tutela della salute».

Per uno sport in cui nessuno senta più il bisogno di ricorrere alle “bombe”.

4 Commenti

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  1. Lucia

    Bravo Claudio, articolo molto interessante! Purtroppo come hai segnalato tu ci si trova a dover fronteggiare il fenomeno della diffusione del doping anche tra i non professionisti, e ciò non è incoraggiante.
    E’ fondamentale, come hai ricordato, l’informazione: le persone spesso non conoscono gli effetti (ormai indubbiamente documentati) di queste sostanze sulla salute. Non ci si può rovinare la vita per la corsa della domenica.

  2. Claudio Carminati

    Grazie Lucia. Informazione e prevenzione sono le armi più efficaci contro un fenomeno che purtroppo in un contesto socio-culturale come il nostro, in cui quello che conta è raggiungere il risultato, costi quel che costi, tende inevitabilmente ad acquisire sempre maggiore diffusione. Da ex ciclista ne ho viste e sentite di tutti i colori, anche nelle categorie giovanili. Difficile sconfiggere il doping se ci sono genitori che si arrabbiano con figli dodicenni solo perché faticano a tenere le ruote del gruppo, o direttori sportivi che sciolgono bustine di Aulin nelle borracce dei ragazzini cui dovrebbero insegnare i principi dello sport sano. La sola speranza è che, messi di fronte alle conseguenze negative che il doping comporta per la salute, i ragazzi imparino a riconoscerlo come un pericolo e quindi a evitarlo, anche se questo significa ridimensionare le proprie velleità nello sport.

    • Claudio Carminati

      Grazie! Purtroppo gli scandali si succedono a un ritmo tale da rischiare di rendere inattuale nel giro di pochi giorni qualsiasi articolo sull’argomento. Sarebbe bello poter mettere un giorno la parola “fine” su una storia che, temo, saremo invece costretti a raccontare ancora per parecchio tempo.

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