Yves Klein e l’arte del judo
Dal 6 giugno scorso le sale del Palazzo Ducale di Genova ospitano la mostra Yves Klein: judo e teatro/corpo e visioni, a cura di Bruno Corà e Sergio Maifredi. Il visitatore desideroso di osservare quadri del celebre artista forse potrebbe rimanere deluso poiché l’esposizione presenta solo alcuni disegni e nessun monocromo autografo, tuttavia il percorso espositivo è interessante perché attraverso fotografie, filmati e riflessioni scritte, restituisce in maniera chiara e sintetica le connessioni profonde tra l’opera di Yves Klein e il suo precoce impegno nella pratica e nella diffusione del judo.
Klein ha già iniziato i suoi primi esperimenti artistici senza consacrarli con una mostra ufficiale quando, nel 1952, si imbarca per Tokyo e si iscrive al prestigioso Istituto Kodokan dove studia lo spirito del judo e ne pratica la tecnica ottenendo, in soli quindici mesi, il 4° grado dan (all’epoca il più alto in Europa). Tornato in patria, pubblica presso Grasset Les Fondaments du Judo, testo ancor oggi fondamentale per chi volesse approcciarsi a questo sport, comprendendone davvero le regole e la filosofia.
Fino agli Anni Cinquanta, spiega il maestro Pino Tesini, gli Europei avevano una visione distorta del judo, lo consideravano una forma di lotta o di difesa personale. In Francia però inizia a sorgere un’attenzione per il judo praticato davvero in Giappone e Klein è tra i principali promotori di questa disciplina che, con i suoi movimenti, le sue regole e i suoi rituali, trascende il piano banalmente agonistico-competitivo dello scontro fisico e si propone insieme come tecnica di combattimento, percorso di meditazione e crescita spirituale. Nel suo saggio l’artista spiega nel dettaglio i sei kata del judo, cioè le sequenze di movimenti codificati, corredandoli con fotografie scattate in Giappone.
Nelle prime sale della mostra ci si sente sprofondare in un’atmosfera quasi mistica grazie all’alternanza di citazioni scritte sui muri e fotografie di judoka in bianco e nero stampate su tela. Il silenzio è rotto solo dalle brevi e intense urla “rituali” dei video in cui i judoka eseguono i kata. Ichiro Abé, introducendo il libro di Klein, gli riconosce il merito di aver compreso l’importanza di queste forme prestabilite del movimento e, soprattutto, di aver palesato agli occidentali l’insegnamento del maestro Jigoro Kano, per il quale il judo si àncora sui due principi del “minimo sforzo per la massima efficacia” e della “reciproca prosperità”.
In effetti, Klein è attratto dal judo come arte: la lotta diventa una metafora della vita stessa, una forma di teatro intrisa di spiritualità che si esprime attraverso il movimento. «Il judo è un’arte dello stesso valore della grande musica, perché deve essere ricreato ogni volta che lo vogliamo di nuovo davanti agli occhi. È un’arte personale e universale perché è l’arte nella lotta, che è come dire la vita stessa».
Nella seconda parte della mostra genovese il visitatore inizia a cogliere il nesso inestricabile tra judo e opere d’arte di Klein, il quale ha ammesso: «il judo mi ha dato molto, ho iniziato a praticarlo quasi contemporaneamente alla mia pittura. L’uno e l’altro hanno vissuto con me come io vivo con il mio corpo fisico». Il video che presenta la realizzazione delle Anthropometries de l’époque bleue (1960) e delle pitture di fuoco (1961) svela i parallelismi judo-pittura-teatro. Nel judo l’incontro è un rito codificato, sul tatami si sale con un inchino e si procede compiendo movimenti studiati e fluidi; così, nella Galleria, la tela bianca è poggiata sul pavimento, intorno l’orchestra suona dinanzi agli spettatori, le modelle si cospargono lentamente del pigmento blu IKB e Yves, in smoking, dirige la cerimonia indicando ai suoi pinceaux vivants (pennelli viventi) i movimenti da compiere. Anna Palumbo, una delle modelle, spiega che il loro corpo era materializzazione del flusso del ki, ovvero della forza vitale che scorre in ogni organismo vivente e che il judoka deve saper incanalare per vincere il combattimento. L’impronta della modella sulla tela è, secondo Pierre Restany, «l’impronta del judoka che cade sul tatami»: trascinandosi sul foglio le donne imitano l’ikkomi, cioè il trascinamento a terra dell’avversario. Allo stesso modo, Klein posiziona le modelle per le pitture di fuoco ricalcando le posture dei combattenti.
L’apice dell’interrelazione tra quest’arte marziale e l’opera artistico-performativa di Klein è la fotografia Le saut dans le vide (1960) che lo ritrae mentre si tuffa nel vuoto con l’intento di avvicinarsi allo spazio vuoto che vuole dipingere. Benché ritoccata nella parte inferiore, la fotografia testimonia un vero salto effettuato dall’artista, reso possibile solo grazie al suo allenamento sportivo: «da anni mi esercito per levitare e conosco bene i mezzi per riuscirci (le cadute nel judo)».
Senza addentrarsi troppo nella complessa poetica di Klein, la mostra rivela che è impossibile capire l’arte di Klein ignorando il suo amore per il judo. Klein testimonia che il judo, nella sua versione pura, non è competizione fine a sé stessa o agonismo che esalta l’atleta superdotato. Al contrario, il judo è percorso fisico e spirituale, basato su esercizio costante e movimento ragionato. Ma soprattutto, il judo insegna a cooperare per il raggiungimento di un benessere collettivo. «Tutti insieme per progredire» dice Jigoro Kano. «L’immortalità si conquista insieme» parafrasa Klein.
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