Il valore sociale del lavoro nel Realismo Pittorico del XIX secolo


Lavoro deriva etimologicamente dal latino labor (fatica) e indica un’attività umana manuale o intellettuale. Il lavoro manuale è stato per secoli un soggetto artistico secondario, ma costante nell’arte occidentale. I portali delle cattedrali medievali sono spesso ornati da bassorilievi raffiguranti contadini, pastori e artigiani, e nelle miniature dei libri d’ore come quello dei Fratelli Limbourg, i mesi si contraddistinguono per l’attività svolta. Soltanto a partire dal XVI-XVII secolo, nei quadri di genere di artisti quali Peter Brueghel, Le Nain, Maes, Rembrandt, i Carracci, Caravaggio ecc., contadini, garzoni e domestiche divengono protagonisti autonomi dei dipinti, senza essere per forza allegoria di reconditi significati religiosi, spirituali o astrologici e senza essere relegati ai margini di figure più nobili. Tuttavia, è verso la metà dell’Ottocento che, con la diffusione del Realismo, si capovolge la gerarchia piramidale relega all’ultimo posto la pittura di genere. «Per i pittori realisti – affermava Théophile Thoré – il ritratto di un operaio nel suo grembiule da lavoro vale certamente quanto quello di un principe nei suoi abiti trapunti d’oro».

Nei decenni centrali del XIX secolo il tema del lavoro domina l’iconografia francese diventando soggetto privilegiato di pittori tra loro molto diversi e assumendo, di volta in volta, connotazioni originali e sfumature semantiche differenti. Aldilà delle rivendicazioni politiche e delle ricerche formali, il mondo del lavoro diventa per i pittori realisti un’occasione di indagine sociale di una realtà contemporanea complessa e contraddittoria, scombussolata dalle prime conseguenze della Rivoluzione Industriale e dell’affermazione della borghesia capitalista. Ecco alcuni esempi chiave.

Courbet cerca la via di un realismo integrale in grado di tradurre in arte tutti gli aspetti della realtà del suo tempo; i lavoratori più umili quali contadini, braccianti e operai assumono dignità e centralità nell’affresco della dimensione sociale globale. I suoi Spaccapietre (1849), colti durante la loro attività, voltano le spalle allo spettatore e non rispettano i canoni classici di composizione scenica e armonia della figura. Pur essendo politicamente schierato a favore del socialismo proudhoniano, il pittore non vuole, in questo caso, una denuncia politica, ma semplicemente la descrizione analitica e autentica dell’aspetto di tale ambiente lavorativo, degli oggetti utilizzati, della fatica di sollevare e rompere massi pesanti, della serietà e concentrazione dei lavoratori, dell’atmosfera silenziosa e carica di quotidianità. Si tratta di un impegno morale più che politico. L’aspetto engagé emerge più esplicitamente, invece, nelle litografie e nei quadri di Daumier: Il vagone di terza classe (1862), caratterizzato da un tratto grafico evidente e pregnante nelle figure in primo piano e da una pennellata concisa e nervosa nella resa di tutti i personaggi, ritrae donne, uomini e bambini dai volti a malapena distinguibili. Gli sguardi persi nel vuoto e i corpi deformati dalla fatica sembrano il contraltare dei pasciuti borghesi e del fagocitante Luigi Filippo, il re pera, protagonisti delle caricature pubblicate da Daumier su “Le Charivari”.

Decisamente più edulcorato risulta il mondo contadino presentato da Millet: L’Angelus (1858-1859) è più tradizionale nell’articolazione dello spazio e nella resa delle figure. Gli attrezzi in penombra, simbolo della durezza e dello sforzo, si perdono nella diffusa luce crepuscolare che avvolge il paesaggio naturale e lascia intravedere un campanile all’orizzonte. I contadini a testa china sono un’immagine poetica (forse un po’ stereotipata) del lavoratore mansueto che cerca nella fede il riscatto alle vicissitudini della vita terrena. Aldilà di questo afflato lirico-religioso, anche Millet aderisce alla poetica del vero e i suoi contadini sono esseri umani logorati dal lavoro e legati ad una terra aspra e difficile da dominare.

Anche gli Impressionisti si proclamano “poeti del vero” e, per quanto i loro soggetti sembrino puramente funzionali alle ricerche formali, finiscono per essere testimoni della complessità sociale del loro tempo. Un esempio significativo è Degas, il più atipico tra gli Impressionisti, colui che non si accontenta dell’impressione istantanea, ma cerca di restituire il movimento e lo spazio tramite un processo razionale e un connubio di immediatezza e costruzione. Definito il pittore delle ballerine, rispose che i suoi soggetti erano solo pretesti per rappresentare il movimento. Forse lo stesso vale anche per tutti i quadri di lavandaie, stiratrici e modelliste al lavoro. Certamente il suo intento era una ricerca artistica, ma il risultato arricchisce l’esplorazione sociale del mondo umile del lavoro. A proposito delle sue danzatrici, afferma il critico Bernd Growe: «Senza mascheramenti di sorta, egli rappresenta la severità degli esami, nei quali le aspiranti, di bassa estrazione sociale, cercano una possibilità di ascesa. Degas rivela il logorio di un lavoro all’apparenza così facile». I volti delle ragazze spesso sono abbozzati, quasi delle maschere caricaturali sui cui lineamenti si intravedono le stesse preoccupazioni e la stessa sonnolenza de La Repasseuse del 1869.

I pochi esempi trattati sembrano quindi confermare queste parole di Linda Nochlin: «L’impegno sociale del realismo non implicava necessariamente un’esplicita dichiarazione di obiettivi sociali, o un’aperta protesta contro condizioni politiche intollerabili; anche la semplice intenzione di “tradurre i costumi e gli aspetti contemporanei” presupponeva un’attiva partecipazione alla situazione sociale del tempo».

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