Tutta l’Europa del modello tedesco


Mai come in questa fase storica il processo d’integrazione economica europea ha assunto un carattere così importante ed incerto. La necessità di fronteggiare la contingenza, che ha assunto in questi anni la sinistra veste della crisi finanziaria prima e della recessione poi, ha attivato un ampio momento di ristrutturazione e di ridefinizione del ruolo e con esso dell’incidenza di alcune istituzioni europee sulla nostra esistenza. Il mandato e l’operatività di tradizionali istituzioni come la BCE vanno ridefinendosi in relazione agli eventi, mentre altre continuano ad esercitare le limitate prerogative per le quali era state istituite, esempio per tutte il parlamento europeo. La cronaca del quotidiano ci obbliga a farci un’idea di cosa sia o, quanto meno, di cosa stia diventando oggi l’Europa e quest’idea, comunque la si voglia pensare, risponde sempre a caratteristiche di opacità se non di quella vera e propria confusione di chi naviga senza una rotta ma con l’unico obiettivo di sfuggire ad una tempesta. Solo una certezza non da poco continua ad accomunare questo vero e proprio mare magnum di analisi politico-economiche: al timone della nave c’è la Germania o, almeno, la nave non può essere timonata senza il consenso tedesco.

La questione è talmente assodata da essersi cristallizzata in una sorta di “mito tedesco” palesatosi dal 2008 ad oggi nella nostra opinione pubblica. Una sorta di “german do it better” del quale si ammantano qualsivoglia istanze di cambiamento nel nostro paese. Grossa coalizione alla tedesca a sostenere il governo Monti, modello tedesco per le modifiche alla legislazione sul lavoro, modello tedesco per eventuali nuove leggi elettorali e poi via a chiedersi quanti soldi in meno guadagni un parlamentare tedesco o quanto sia più veloce a dimettersi o farsi processare un deputato del Bundestag rispetto a un collega italiano colto in fallo, per concludere con l’immancabile paragone automobilistico corredato di raffronto tra buste paga: la Germania ha assunto in maniera silente ed unanime il crisma di esperienza modellizzante. Insomma tutti vorremmo essere come i tedeschi e se dobbiamo prendere una decisione cerchiamo di fare ciò che farebbero i tedeschi.

Il punto è che nessuno si chiede veramente cosa abbiano fatto i tedeschi dall’istituzione della moneta unica fino ad oggi. Dalla crisi si esce tagliando i debiti e rimettendo i conti in ordine: la crescita seguirà. Queste sono le rotte che le istituzioni europee consigliano di seguire ai nostri governanti per non far naufragare l’area euro. Il retropensiero inscritto in simili decisioni è chiaro: fare il possibile per allinearsi al modello del paese che se la cava meglio ovvero cercare di assomigliare alla Germania,  costi quel che costi. Il problema però sta nel fatto che la Germania dal 2001 a oggi è riuscita a coniugare contemporaneamente crescita e rigore perché inserita in un sistema economico ad alta integrazione e con un’unica valuta chiamato Europa.

Quest’esperienza paradigmatica di sviluppo, paragonata da molti commentatori a una sorta di neo-mercantilismo, si è basata in gran parte sull’espansione di un mercato che non aveva bisogno di essere stimolato da politiche espansive e quindi di spesa pubblica, che si sarebbero al contrario rese necessarie per il mercato interno. La domanda in ascesa che ha fatto da volano all’export e avviato il ciclo di crescita tedesco è stata quella dei paesi dell’appena nata zona euro. In particolar modo di quei paesi dell’Europa meridionale che trovandosi finalmente liberi da alti tassi d’inflazione e garantiti dalla stabilità monetaria acquisita con la valuta unica, si sono trasformati da mercati in cui il marco forte precludeva gran parte delle opportunità d’esportazione, a propulsori fondamentali dell’espansione tedesca.

Sembra un grosso errore fare dell’esperienza tedesca un paradigma di sviluppo da applicare ai paesi in difficoltà della zona euro. Significa dimenticarsi che la Germania e le sue fortune socio-economiche sono indissolubilmente legate a un mercato sostanzialmente piuttosto chiuso come quello europeo, in cui il sessanta per cento dell’import-export avviene all’ interno della UE stessa. Un mercato in cui dovrebbe apparire ovvio spiegarsi almeno in parte i deficit nella bilancia commerciale di Spagna e Italia, che viaggiano intorno al tre per cento, con l’attivo tedesco del 5,7 per cento. In buona sostanza l’euro, i cui benefici sono indiscutibili, ha però consentito alla Germania di esportare molto e ai Paesi deboli di importare troppo. In questo quadro estremamente integrato, il rigorismo e lo sviluppo tedesco giungono ad essere, per certi aspetti, complementari alle politiche di spesa pubblica dei paesi dell’Europa mediterranea, senza per questo volerne certamente giustificare l’abuso.

Si va delineando un dato di fatto che ci pone dinnanzi a un paradosso. Se dal 2001 ad oggi tutti i paesi dell’UE avessero seguito il modello tedesco, il mitico binomio di rigore e crescita sarebbe rimasto un’utopia, non di meno di quanto lo è ora se ci guardiamo fuori dalla finestra e osserviamo lo stato in cui versa la nostra cosiddetta economia reale.

L’unica via possibile per uscire indenni dalla tempesta che il nostro tempo ci ha messo dinanzi pare essere quella di tornare a riflettere sui problemi di quelle istituzioni europee di cui si parlava all’inizio dell’articolo. Esse sono organismi creati per prendere decisioni sull’Europa come sistema integrato, che purtroppo sembrano essere sottoposte a ristrutturazioni più contingenti della casualità stessa degli eventi che dovrebbero contrastare. La politica nasce per prendere decisioni riguardanti la vita associata, la modernità ha fatto dell’economia il fattore decisivo sulla base del quale si è organizzata la vita associata stessa. Ebbene solo creando coscientemente istituzioni capaci di organizzare e prendere decisioni sul nostro sistema economico, che ormai è da considerarsi il sistema economico europeo, si può pensare di uscire più forti di prima da questa crisi.

Non si tratta di creare un’istituzione che ci faccia assomigliare tutti alla Germania o al paese che se la passerà meglio fra dieci anni ma pensare a soluzioni per un contesto comune, istituire organismi che possano decidere e mettere in atto una politica organica per l’Europa intesa come soggetto economico unico, tenendo conto delle diversità dei territori che la compongono ma anche del dato di fatto fondamentale, che questa crisi ci sta mostrando. Ovvero che l’Europa va considerata come un sistema economico unico e, di conseguenza, va organizzato con visione d’insieme. La rotta per portarci fuori dalla tempesta, non può dunque essere quella del modello tedesco ma quella della creazione di un modello europeo. Solo se quando qualcuno che nel mondo dovrà prendere una decisione, potrà pensare: cosa farebbero al riguardo gli europei, solo a quel punto sapremo di essere usciti dalla crisi con delle risposte e con un futuro nuovo per noi stessi.

1 comment

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  1. Francesco Campana

    La copertina del numero di Febbraio di IL – il maschile del Sole 24 ORE o, come lo ha definito Sasha Issemberg, «il più bel magazine del mondo» – è dominata da un primissimo piano del freddissimo sguardo di Angela Merkel. Il volto della Germania di inizio secolo ha occhi di ghiaccio, denti d’acciaio e mascella serrata per incutere rigore in tutti i partner europei. Adriana Cerretelli confronta la Cancelliera con Margaret Tatcher: modi e aspetto differenti, ma «stessa morsa ricattatoria su vita e destino della famiglia europea». Sembra dimenticata la lezione del suo predecessore Helmut Kohl – il Cancelliere della riunificazione – «voglio una Germania europea e non un’Europa tedesca». La politica economica europea della superpotenza negli ultimi tempi ha mostrato tutta la sua avversione nei confronti di certi modelli «di paesi mediterranei popolati da cicale cariche di debiti». La paura di dover metter mano al portafoglio dei tedeschi per far fronte alle gozzoviglie dei cugini sta dilagando in patria, per questo la Cancelliera vuole imporre un nuovo modello di politica economica, per evitare che in futuro il bengodi di alcuni paesi ricada sulle spalle della collettività. Mario Draghi si è conquistato la fiducia dei teutonici perché è quanto di più tedesco l’Italia abbia mai prodotto. Lo stesso Mario Monti ha accettato la definizione di «genero ideale per i tedeschi perché parlo poco, vesto in modo sobrio e banale e non sono rumoroso». E ha concluso: «il più è fatto». Già, il più è fatto. Siamo tutti d’accordo che rigore nella contribuzione dei cittadini e sobrietà nell’amministrazione della cosa pubblica siano un clistere non procrastinabile – anche se vorremmo che i primi a dare il buon esempio fossero proprio i governanti. Ma subdolamente la germanizzazione dell’Europa è già in atto. La Germania non ha visto realizzarsi il Neue Ordung di Hitler, ma essere nel club dei pochi eletti a tripla A del rating internazionale le permette di imporsi come modello economico per tutta l’Unione. Nonostante il suo potere a livello internazionale – Forbes l’ha eletta donna più potente del mondo nel 2010 – nella sua patria c’è chi ha definito Angela Merkel “Mutter mutlos”, madre (s)coraggio, per sottolineare la sua incapacità di prendere decisioni per eccesso di analisi e la sua responsabilità di una politica che si trincera dietro le regole, i regolamenti e le sanzioni. Sempre in IL, Simone Paliaga ci ricorda che la Germania si dibatte fra la sindrome d’accerchiamento e i sensi di colpa dai tempi di Guglielmo I, mentre fra i più anziani è fortissimo il terrore delle due iperinflazione successive ai conflitti mondiali che li costrinse a usare il marco come carta buona solo per accendere il fuoco. La Cancelliera deve esorcizzare questa paura, pena il crollo del proprio consenso interno.
    Proprio come nel dipinto di Friedrich Overbeck , le economie di Italia e Germania sono legate indissolubilmente: l’interscambio fra i due paesi (102 miliardi nel 2010) vale più di quello del Belpaese con Francia e Inghilterra messe insieme. Un raffreddore dell’economia tedesca può diventare un’epidemia nel nostro paese. Nello stereotipo comune gli italiani rispettano i tedeschi ma non li amano. Per i tedeschi sembra essere il contrario.
    In questo momento storico, la Germania tiene il timone della barca Europa. È un dato di fatto che deve stimolarci a non fidarci troppo del timoniere e invitarci a ricordargli che anche Nietzsche si auspicava una “grecizzazione della Germania”.

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