Il professor Kant contro Kaczynski: filosofia della storia e ritorno allo stato di natura


The industrial revolution and its consequences have been a disaster for the human race. […] The industrial-technological system may survive or it may break down. […] there is no way of reforming or modifying the system so as to prevent it from depriving people of dignity and autonomy. […] We therefore advocate a revolution against the industrial system. […] This is not to be a POLITICAL revolution. Its object will be to overthrow not governments but the economic and technological basis of the present society.”
Questo passo fa da incipit al manifesto ideologico “The industrial society and its future”, scritto da Theodore Kaczynski, passato alle cronache americane degli anni ‘90 con il nome di Unabomber. E’ estremamente chiaro nel riassumere la tesi di fondo dell’autore, che ritiene auspicabile per il bene della specie umana che il sistema tecnologico collassi (o meglio, sia fatto collassare, se necessario con la forza). Chissà, se solo fosse stato possibile questo singolare incontro, come avrebbe reagito a tale posizione il professor Kant di Königsberg. Sicuramente doversi confrontare con l’opera intellettuale di un gretto attentatore, vissuto anni ed anni come un selvaggio, gli avrebbe suscitato un istintivo fastidio, considerata la sua celebre metodicità per cui i più regolavano gli orologi rispetto alle sue quotidiane abitudini. Ma certo subito si sarebbe preoccupato seriamente di come un individuo potesse sostenere la preferibilità di un improbabile ritorno allo stato di natura rispetto a quello che oramai nel XXI secolo, il nostro (ben più che al secolo di Kant), si può descrivere come un affermato ed irreversibile progresso tecnologico, e con quali argomenti sostenesse questa tesi. Si sarebbe di certo preoccupato di leggere questo manifesto, per poi attaccarlo con una dura ed affilata invettiva.

L’accostamento tra due personaggi così differenti è senz’altro azzardato, ma vi è in realtà in questo manifesto più di un punto d’interesse rispetto a ciò di cui Kant si era occupato assiduamente negli anni. È infatti con Kant che nasce quella disciplina chiamata comunemente filosofia della storia, che tende, almeno alle sue origini, a riflettere sul destino a cui il progresso della ragione umana avrebbe sempre di più costretto gli eventi nella storia a venire. Prima dei tempi moderni le profezie giungevano da divinità o comunque entità superiori, gli uomini infatti erano impediti dalla loro stessa natura a vedere lontano, dove gli eventi li conducevano. Ma i pensatori moderni (specie quelli tedeschi) si fecero, nell’età della ragione, assai fiduciosi di sé stessi, e cominciarono a trarre considerazioni di portata universale sulla storia umana rispetto a come questa si è fino ad ora data. Vi è un destino che è concepito come una tensione inevitabile, sebbene il suo statuto sia ambiguo in quanto relativo alla ragione (e dunque alla volontà umana, arbitraria): si potrebbe dire in breve che viene letta negli eventi passati una tendenza oggettiva della storia al progresso generale dell’umanità.

Il progresso che Kant cercava di leggere nella storia era strettamente legato alla sua teorizzazione della ragione pratica: essendo questa connaturata all’umanità consentiva ad essa di apprendere, sul lungo periodo, dai propri errori, sviluppando via via una maggiore comprensione di ciò che è utile (inteso qui come funzionale a un obiettivo). Così gli uomini decisero progressivamente di abbandonare lo stato di natura e di vivere in comunità in cui vigeva un diritto comune, questo per il fine di non dover patire più il dolore e l’indigenza che la vita degli individui dispersi comportava. Così nel corso dei secoli i loro conflitti interni venivano ammorbiditi nel diritto e la contrapposizione tra uomini si spostava sempre più nelle guerre fra gli stati. Muovendosi secondo questa logica Kant colloca una sorta di fine della storia (nel duplice senso di termine e di obiettivo ultimo) nella formazione di un organo sovranazionale che amministri secondo il diritto cosmopolitico le vicende fra gli stati in modo che la ragione conduca infine gli uomini a conciliare la libertà (quella originaria era naturale, ma ora si è realizzata come civile, cioè attraverso il diritto) con la pace perpetua (assenza di dolore e di pericoli). Si assisterebbe così ad un totale ribaltamento da parte della razionalità rispetto alla condizione naturale degli uomini (lo stato di natura) in cui per la specie umana valeva uno stretto legame fra libertà e guerra. Concludendo questo incompleto riassunto di ciò che Kant ha sostenuto in varie opere, ed in diversi modi: nella filosofia della storia che Kant inaugura è la ragione che diventa sempre più vettore della storia e la razionalità strategica (cioè come ottenere il massimo beneficio, o il minimo danno, in una data situazione, che Kant nomina come ‘imperativo ipotetico’) finisce per condizionare la stessa razionalità morale (cioè l’agire degli uomini secondo un criterio universale di ciò che è giusto, che Kant nomina come ‘imperativo categorico’). Nel corso della storia, proprio grazie alla razionalità strategica l’umanità riesce infine a perfezionare la sua razionalità morale, così che il progresso assume un connotato necessariamente positivo e desiderabile, in quanto la capacità tecnica giova infine allo stesso affermarsi della legge morale.


Rispetto a questo tipo di indagine, perseguita in modi diversi da altri pensatori “storicisti” (sicuramente da Hegel e dalla sua schiatta di allievi, tra i quali il più brillante, un certo Karl Marx) Kaczynski non si occupa di qualcosa di molto diverso poiché anche le sue considerazioni muovono a partire dalla storia della specie nel suo complesso, in una valutazione unitaria della natura umana e delle vicende che l’hanno coinvolta. Sebbene non abbia nessuna pretesa di ergersi a tali altezze speculative, limitandosi a considerazioni più puntuali, nondimeno da queste deriva la necessità per la specie umana di invertire, e con metodi che non escludono la violenza, quel processo storico che per Kant è non solo necessario ma anche desiderabile. Ovvero come si leggeva nell’incipit: per salvaguardare la libertà degli uomini è necessario interrompere il progresso tecnico al quale ci siamo asserviti da oramai diversi secoli, dalla rivoluzione industriale sino ad oggi. Le sue valutazioni muovono da una considerazione strettamente biologica della specie umana (cioè, come un mero animale fra gli altri le cui finalità stanno nei suoi propri istinti); afferma che rispetto a come gli uomini si erano adattati all’esistenza secondo una naturale evoluzione, essi stessi hanno operato attraverso il progresso tecnologico sino a modificare sostanzialmente il loro modo di vivere. In quello che Kant vedeva come espressione della sempre maggiore libertà civile (il diritto, la politica e il sistema che queste fondano) Kaczynski vede al contrario la sempre più stringente e perfezionata coercizione del sistema che gli uomini hanno istituito su loro stessi. Da qui la necessità di liberarsene.Aggiungo qualcosa di più specifico su cosa sia inteso nel manifesto con la parola “sistema”, poiché, sebbene nel manifesto di Kaczynski vi siano talvolta esagerazioni che negli esiti descritti appaiono poco credibili, la descrizione del sistema vigente che viene data non è quella tipica del complottismo, secondo cui alcuni uomini, i loro sottoposti e i loro eredi riescono a pilotare a tavolino le sorti del mondo fino ad ottenerne l’asservimento. La questione è analizzata in maniera più raffinata e da essa segue un ragionamento limpido:
1- Il sistema è determinato dalla sua struttura tecnologica che sola fornisce la potenza effettiva a quel sistema per sussistere. L’ambito giuridico-politico-sociale muta di conseguenza ed è reso possibile nella sua forma odierna dalla potenza tecnologica mobilitata quotidianamente e globalmente. Certamente la tecnologia abbisogna altrettanto di una società che a questa si conformi e che ne ricerchi continuamente il perfezionamento, ma l’accento viene posto fortemente sul fattore meramente tecnico che è la possibilità del sistema di continuare a funzionare (cioè a sussistere). Questo limite stringente è quello che non consente di conciliare la libertà degli uomini con il sistema attuale. Gli uomini stessi per impedire il collasso devono via via costringere sé stessi e i loro simili con regole formali ed informali sempre più stringenti. Il sistema è infatti estremamente permissivo, ma solo riguardo a ciò che non è importante per il suo funzionamento.
2- Questo perché il sistema tecnologico, che inizialmente produce manufatti dalla innegabile beneficio pratico col tempo plasma la società stessa in quanto rende gli uomini dipendenti da quegli strumenti di cui hanno scelto di servirsi. L’esempio calzante che fa è quello del trasporto motorizzato. Ovviamente quando gli uomini si muovevano a piedi o a cavallo il trasporto motorizzato apparve come un innegabile beneficio che nulla toglieva alla libertà di muoversi come prima. Ma, oltre ai problemi propriamente ambientali che esso produce oggi, gli uomini a quella tecnologia si sono dovuti vincolare, e senza di essa oggi non potrebbero sopravvivere così che in vari modi la loro libertà di vivere muovendosi sulle proprie gambe piuttosto che con altri mezzi è stata compromessa. Né, sottolinea lui, può esservi un qualche regresso, perché il progresso tecnologico tende necessariamente a perfezionarsi, fintanto il sistema funziona; così, se si vuole conservare il sistema e non invece distruggerlo non si può “rallentare la corsa”, decrescere (come dicono alcuni), ma solo progredire, potenziare e perfezionare ciò che già esiste.

3- Secondo le circostanze evolutive proprie della specie umana, adattatasi a condizioni assai diverse da quelle del vigente sistema tecnologico, questo sistema impedisce in molteplici modi (coercitivamente) la libertà degli uomini. La “libertà” viene definita come il poter autonomamente vivere secondo l’attitudine propria della specie umana, che egli identifica soprattutto nel “processo del potere”. È difficile descrivere in poche righe la teorizzazione che ne viene data nel manifesto: esponendola sbrigativamente, si potrebbe definire come un processo secondo cui gli uomini necessitano di soddisfare i propri obiettivi ed impulsi reali attraverso uno sforzo rilevante ( atto ad eliminare un’opposizione esterna). Gli obiettivi che egli considera come reali sono quelli della tradizione che nasce nell’Europa moderna, la stessa che i pensatori che ho sopra citato attribuivano agli uomini nello stato di natura (a partire dal celebre buon selvaggio di Rousseau). Ovvero pochi e semplici necessità da soddisfare, come procacciarsi acqua e cibo, proteggersi dalle aggressioni e dai pericoli e altre faccende simili che concernono la sopravvivenza e la vita modesta di un uomo in una piccola comunità. Dunque da questo punto di vista si sottolinea un vero e proprio scollamento tra le naturali necessità, connaturate all’esistenza umana e le necessità artificiali che l’impianto o la gabbia d’acciaio per usare una terminologia cara a Max Weber, pone come scopo e finalità  dell’esistenza dell’uomo moderno. Un uomo trasformato in mero ingranaggio funzionale rispetto a quella grande macchina razionale nelle suo funzionamento ma irrazionale nel suo insieme rispetto all’esistenza umana che è il sistema del progresso tecnico. Uno scollamento in ultima analisi tra il fine dell’esistenza individuale, che diventa il farsi mobilitare a vantaggio di un gestell e quello dell’impianto stesso che non è necessario all’esistenza né tantomeno le conferisce un senso o un punto d’arrivo razionale.

Ciò che è importante cogliere, mi sembra, è che in questa prospettiva al progresso tecnologico non corrisponde alcun progresso morale. Al contrario il destino a cui ci conduce l’industrializzazione è infine catastrofico per la specie umana che patisce i molti disagi psicologici e sociali che l’affliggono in seguito a questo radicale mutamento di condizione a cui è sempre di più costretta. Vi è costretta, ricordo, non per la brutalità intenzionale di qualcuno ma perché è il sistema stesso che perfezionandosi richiede di piegare sempre più gli uomini e i loro impulsi al proprio funzionamento. Gli uomini stessi hanno, ovviamente, un istintivo orrore all’ipotesi di una brusca interruzione di quel sistema (pensiamo ai film che inscenano catastrofi e futuri disastrosi di sterminio della specie umana) e si adoperano perché questo non collassi. A causa di tutto questo, e di molto altro, Kaczynski sostiene la necessità di una rivoluzione (se ha senso chiamarla in questo modo) contro il sistema tecnologico. E non di una rivoluzione politica, poiché egli ha ben chiaro che ciò che conta è il sistema che si è costituito, ed esso trascende questioni ideologiche e sociali. Anche se un tale obiettivo comporterebbe sicuramente molta sofferenza per gli uomini, egli ritiene che sia giusto schierarsi per la loro libertà piuttosto che a favore dell’indiscriminato progresso tecnologico.

Contro questo tipo di posizioni oggi nessuno si prende più la briga di prendere le parti che furono di Kant e degli illuministi, poiché forse è venuta meno tra i più la fiducia nel necessario progresso morale dell’umanità e verso molti altri punti di forza del progresso tecnico-razionale che sembravano invece oramai definitivamente acquisiti ai nostri predecessori. Tuttavia i più difendono ancora come ovvia la necessità della tecnologia di sistema per l’umanità e con essa il generale benessere che ha portato agli uomini, attraverso il quale si sono “emancipati”. La critica di Kaczynski però proprio su questo punto vuole sostenere una posizione diametralmente opposta: gli uomini per il proprio bene dovrebbero desiderare piuttosto il crollo di tale sistema tecnologico, infatti esso comporta inevitabilmente la perdita sempre maggiore di libertà, cosa oramai intollerabile, a prescindere dai benefici. Questa tesi non deve essere scambiata per una assurda pretesa, poiché ciò che egli vuole discutere, e che anche Kant volle discutere a suo tempo, anche se in un modo ben diverso, sono proprio i fini a cui ci si deve votare, come singoli e come specie. Ed è il fine che da sempre indica benefici e mali.

 

Letture consigliate:

http://www.ecn.org/contropotere/primitivismo/John_Zerzan__sulla_transizione.htm

http://editions-hache.com/essais/pdf/kaczynski2.pdf

 

Ringrazio Nico per l’integrazione al testo e per i consigli

2 Commenti

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  1. Luca

    Ciao Lorenzo,

    non so se Kaczynski avesse mai letto Kant, ma credo proprio avesse letto Herbert Marcuse e che dai leitmotive critici di questa letteratura venisse in qualche modo influenzato: “Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno di progresso tecnico”, affermava sardonicamente in apertura di “L’uomo a una dimensione”.
    L’autore però era certo, parlando addirittura di “fine dell’utopia”, che tale sistema (totalitario a tal punto da determinare le aspirazioni personali!) poteva essere messo in discussione tramite quelle contraddizione interne che esso stesso non riesce a nascondere ma che utilizzava per istituirsi e sancire i propri confini: da un lato gli emarginati (i cosiddetti reietti del sistema), dall’altro la creatività “erotica” (la quale si genera nel crescente tempo libero risultato della tecnologizzazione del lavoro).

    Visione distorta? Voi che ne pensate?

  2. Lorenzo

    Ciao Luca,

    credo proprio che Kackzynski abbia letto Marcuse e si sia esplicitamente riferito a certi aspetti della critica alla società di massa della scuola di Francoforte. Detto questo, il modo in cui considera la questione credo non possa essere più diverso. Marcuse e compagnia vengono dalla tradizione critica idealista tedesca, mentre Kackzynski si rifà una concezione ben più individualista e semplice degli uomini e del loro stare in società. Per questo le conseguenze che traggono i due sono necessariamente ben diverse. Per quanto riguarda le proposte di Marcuse, credo che Kackzynski le rifiuterebbe come di fatto consensuali al sistema, non minimamente in grado di scalfirne le fondamenta (che stanno nel sistema tecnologico formatosi). Nel senso che tranne in casi eccezionali ed effimeri queste tematiche sono state ben presto “inglobate” e istituzionalizzate dallo stato, che si è fatto promotore, in certi casi, della libertà sessuale senza discriminazione alcuna, del sesso con il preservativo, dell’educazione sessuale a scuola. Anche in questi casi, ne è diventato il monopolista, così da poter avere più controllo su queste stesse pratiche che un cinquantennio prima potevano turbare la società intera. Questo perché il sesso (purché non trasmetta malattie e purché non porti ad una crescita demografica insostenibile) non provoca di per sé nessun danno al sistema. E il sistema, dice Kackzynski, è estremamente permissivo per tutto ciò che non è importante al suo sussistere.

    Credo che si potrebbe riassumere questo divario nell’aspetto che essi privilegiano. Marcuse (anche se confesso, non l’ho mai letto, solo saputo qualcosa sui manuali) mi sembra voglia trovare uno spazio per gli individui in cui essi possano sopravvivere senza diventare semplici ingranaggi. Kackzynski invece si pone il problema della società e dei legami profondi che la fondano, e dunque per lui non ci si può accontentare di essere individui che vivono bene, anche se gli individui fossero molti, poiché essi comunque vivranno in questa società che di fatto ne tiene in mano le sorti. L’importante infatti è la società, o anche il contesto in cui gli uomini si trovano a vivere. La società oggi vigente non può continuare ad essere perché essa di fatto impedisce l’esistenza di quelle che lui chiama le società naturali (cioè dalla famiglia alle piccole comunità). A questo proposito è interessante la distinzione che fa, sempre nel manifesto, della vita di un uomo nella civiltà tradizionale rispetto a quella nella società tecnologica. Nella prima avviene una sorta di procedere ciclico, degli stadi o età nella vita cui un uomo di volta in volta accede, per l’età e per le azioni che compie, così che costui, una volta giunto all’età della vecchiaia, sia già preparato a cedere il posto ai figli. Invece oggi dove questo processo è pressoché scomparso, gli individui rimangono bene o male simili fino a quando, da anziani, tentano disperatamente di rimediare alla corruzione del corpo in modo artificiale, insoddisfatti come sono del vissuto fino a quel punto. Insomma, Kackzynski ha una certa repulsione per il progressismo e lo dimostra con una spietata (ma, direi io, giustificata) critica del tipo psicologico del progressista, che svolge nella prima parte del manifesto. Egli ritiene che il progressista (ad esempio il nostro Marcuse) critichi il sistema non perché lo ritiene ingiusto nella sua forma, ma perché esso non è adeguato ai principi cui si ispira: il progressista vuole dunque che il sistema sia perfezionato, non distrutto, come invece ritiene necessario Kackzynski.

    Se dovessi scegliere, direi che condivido molto più la posizione di Kackzynski, perché la trovo, pur se traballante, negli aspetti fondamentali piacevolmente “schietta” (e portatrice di qualche verità)

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