Educare a parlare, pensare, con-Vivere


4.570.317 è il numero di stranieri rilevato dall’Istat al 1 gennaio 2011, su un totale di oltre 60,6 milioni di persone. Un incremento del 7,9% che ci mostra come sempre più l’Italia debba decidere cosa fare da grande.

In che senso? Nel senso di prendere atto della complessità crescente del nostro paese, del suo humus, ancora troppo legato ad un’auto-rappresentazione che segue le logiche dei regionalismi e rifiuta il respiro internazionale, che invece possiede.
Eppure lo teme, e lo contrasta.

La strada della rivolta delle banlieue parigine è lontana da noi? Di certo non lo sono il reato di clandestinità, e l’incredibile lunghezza del cammino per ottenere la cittadinanza.

In che modo allora, se non con l’educazione, possiamo imparare a convivere con l’Altro, a non temerlo e a capire che l’Italia di domani sarà Italia della diversità? Fondamentale è che questo avvenga nelle scuole, ma anche fuori, nella società.

È da poco finito il 150° anniversario dell’unità nazionale. La storia ci insegna quanta distanza si poneva centocinquanta anni fa, tra nord e sud.

Bene, se fu proprio nelle scuole che allora si creò l’Italia, è da qui che probabilmente dovremo ripartire.

Prendere atto che gli stranieri non sono solo schiene e braccia, ma anche e soprattutto mente, cuore e lingue è il primo passo; ma dopo questo arriva la necessità di un cambio di registro. Prima di tutto linguistico.

Dobbiamo imparare a parlare nel quotidiano.

Troppo spesso e in modo pernicioso sentiamo ai Tg “un rumeno di 35 anni ha fatto quello” , “un marocchino di 20 ha commesso quest’altro”, come se ci fosse una correlazione necessaria tra provenienza e criminalità. Per non parlare del gergo comune, del “frocio” e del “negro”, i due più inflazionati.

Secondo la logica di A. Tarski c’è identità tra pensiero e parola; cioè, dobbiamo uscire dall’idea che questo modo di parlare sia “soltanto un modo di dire”.

Il continuo ripetersi di appellativi, tutti più o meno palesemente dispregiativi, crea un sentimento, un modo di pensare violento e discriminatorio che solo con un’attenta educazione può essere fermato.

E deve esserlo, perché se non si affronta la lotta al pregiudizio partendo dal basso, dal semplice, non ci sono battaglie di principio che possono essere vinte.

Fare della tolleranza la scienza della convivenza, la base dell’educazione civica, non può che passare dal linguaggio, poiché esso è il veicolo principale della nostra socializzazione come specie.

Tutto questo sarà possibile solo se chi governa, tecnico o politico che sia, avrà il coraggio di andare oltre le dichiarazioni di principio e investirà nella scuola, pubblica e laica; rivalutando la figura pedagogica dell’insegnante, non solo come guardiano del pollaio in cui chiudere i figli qualche ora al giorno (vedesi le polemiche sulla chiusura delle scuole durante l’emergenza neve).

Solo la scuola è veramente per tutti, solo qui un paese forgia il proprio futuro, e solo questa è – da sempre e naturalmente – luogo di socializzazione tra tutte le classi sociali e – oggi – culture diverse.

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