I pericoli dell’asimmetria informativa: gli scandali Parmalat ed Enron


In economia e finanza i problemi riconducibili alla carenza di informazioni, in un rapporto fra due o più soggetti, vengono detti di asimmetria informativa. Clamorosi casi di falsi in bilancio come quelli di Enron e Parmalat, o la comprovata pericolosità di certi strumenti finanziari testimoniano la centralità di tali problemi nella tutela dei piccoli investitori e del pubblico in generale.

Solitamente, affinché banche ed investitori siano disposti a conferire i propri risparmi o capitali alle imprese, occorre che queste prestino adeguate garanzie ed impieghino prestiti o i conferimenti in modo adeguato, salvaguardando le proprie liquidità, solidità e redditività. Tutto ciò comporta la raccolta e la diffusione di un’ingente mole di informazioni il più possibile chiare ed aderenti alla realtà. Chi se ne occupa?

Le ormai famigerate agenzie di Rating”, innanzitutto, si occupano di valutare l’affidabilità della situazione finanziaria di imprese, stati sovrani e strumenti finanziari in generale, assegnando a questi un “punteggio” indicante la probabilità della solvibilità degli stessi, facilitando l’orientamento degli investitori.

Le imprese devono poi dotarsi di ulteriori “controllori”: i collegi sindacali, ovvero organi di controllo della legalità, e i revisori contabili, ossia lavoratori autonomi o, più spesso, società incaricati di supervisionare la correttezza e la veridicità del bilancio di esercizio. Chi è disposto a pagare per questo insieme di informazioni e supervisioni, che vanno a vantaggio di investitori e creditori?

La risposta è: gli emittenti stessi. Questo infatti consente loro di finanziarsi a costi molto inferiori da quelli ottenibili in situazione di totale asimmetria informativa. Pare però evidente come possano sorgere ingenti conflitti di interesse nelle posizioni di agenzie di rating e società di revisione, che vengono pagate dagli stessi soggetti sui quali devono emettere giudizi.

Quanto accadde nel rapporto fra Enron ed Arthur Andersen ne è un esempio. Arthur Andersen, all’epoca società di revisione contabile largamente affermata, era stata incaricata di sorvegliare i processi contabili di Enron, colosso energetico texano, considerata nel 2001, oltre che uno dei leader mondiali nella distribuzione di gas ed elettricità, settima più grande azienda statunitense per giro d’affari.

Enron, che dalla nascita nel 1985 con la fusione di Houston Natural Gas ed Internorth, aveva conosciuto un’ascesa inarrestabile (il prezzo delle azioni era giunto a sfiorare i 90$ nel 2000)  combinò allo sviluppo  senso geografico e “materiale”, come l’acquisizione o la costruzione di sistemi di distribuzione energetici, svariate operazioni di stampo finanziario, transazioni che vedevano Enron investire ingenti capitali nel mercato dei derivati; inoltre, la creazione di EnronOnline permise agli utenti di tutto il globo si effettuare compravendite di commodities, oltre che di contratti futures e forwards riguardanti le stesse.

Tuttavia, per partecipare a tali “scommesse” finanziarie, Enron aveva creato centinaia di società-veicolo: grazie ad una legge che permetteva, negli USA, di trattare le operazioni di tali “SPE” (Special Purpose Entities) come “off-balance activities” finché almeno il 3% del capitale netto della SPE fosse detenuto da una società indipendente, Enron poteva escludere tali società dal bilancio consolidato del gruppo.

Fu probabilmente attraverso le succitate “attività fuori bilancio” che Enron elargì ingenti “donazioni” ad esponenti di spicco della politica statunitense, ottenendo in contropartita importanti concessioni e deregolamentazioni. La fragilità di tale “costruzione” emerse però nel 2001, quando a partire da Ottobre la società inizio a dichiarare ingenti perdite. Un’indagine della SEC portò poi alla luce problematiche irreversibili, cosicché due mesi dopo, nel dicembre 2001, a seguito di un crollo del valore della azioni societarie sotto il dollaro, Enron fu costretta a dichiarare bancarotta. I dipendenti dell’azienda si trovarono in una situazione disastrata: non soltanto avevano perso il posto di lavoro, ma i loro risparmi, investiti per la maggior parte in azioni Enron a causa di un accordo che impediva loro di rivenderle, avevano perso quasi tutto il valore.

Arthur Andersen seguì poi la sorte della società che avrebbe dovuto supervisionare. Alcuni dirigenti della società finirono sotto accusa per aver ordinato la distruzione della documentazione in loro possesso riguardante la contabilità di Enron. Nel 2005 la società di revisione fu poi, a seguito dell’ulteriore coinvolgimento nella bancarotta di WorldCom, condannata dalla Suprema Corte degli USA. Andersen aveva ad ogni modo perso la stragrande maggioranza dei propri clienti già con il coinvolgimento nelle indagini.

Considerando ora il sistema finanziario italiano, il crack Parmalat può essere considerato in proporzione paragonabile a quello Enron. La società di Callisto Tanzi versava già all’epoca della quotazione in borsa (1990) in condizioni pessime: l’insostenibilità dei debiti di breve-medio termine aveva costretto il patron della società di Collecchio a ricorrere a finanziamenti bancari accordati a condizioni “particolari”. Anche in questo caso, di fatti, emersero trasferimenti illeciti di denaro a banchieri e politici, ma non solo: per mantenere in vita il gruppo Parmalat, le banche costrinsero Tanzi ad una serie di acquisti di imprese finanziariamente disastrate a prezzi di favore, fatto che contribuì ad accrescere l’esposizione debitoria della società: ad esempio, secondo l’accusa del Gup di Roma,Cragnotti e Geronzi (allora rispettivamente presidenti di Cirio e Banca di Roma) avrebbero esercitato forti pressioni su Tanzi affinchè acquisisse Eurolat, ramo “latte” del già dissestato gruppo Cirio tale società, con la minaccia della revoca dei finanziamenti concessi.

Le grandi banche che si trovarono coinvolte nei finanziamenti al gruppo di Collecchio erano con quasi certamente delle difficoltà del gruppo: l’inchiesta iniziata nel 2003 a seguito dello scandalo vide coinvolte, fra le altre Bank of America, Citigroup, UBS, Monte dei Paschi e Deutsche Bank. Le grandi banche di investimento, di fatti, oltre che fornire all’azienda prestiti di breve termine, la spinsero verso una serie di acquisizioni internazionali, attraverso poco limpide operazioni di finanza strutturata. I bilanci pubblicati dalla società e rivolti alla maggioranza dei portatori di interesse erano palesemente distorti, attraverso indicazioni di disponibilità inesistenti, come i 4 miliardi allocati nel famigerato fondo Epicurum (ma inesistenti), o sottostime degli effettivi debiti, conducendo ad una voragine contabile di almeno 14 miliardi.

Nel 1997 la procura di Parma incaricò il ragioniere Mario Valla di eseguire un’analisi sulla situazione finanziaria della società. Egli, utilizzando strumentazioni  semplici e diffuse, scoprì la verità di una situazione già compromessa, segnalandola per tempo al gip di Parma e dimostrando la conoscibilità della stessa. Tuttavia, non sentendosi né il GIP né il PM in dovere di informare la Consob, l’inchiesta fu archiviata.

Anche in questo caso, nel determinare la bancarotta, oltre alla sfrontatezza e imprudenza di proprietari e dirigenti della società, determinante fu dunque l’esistenza di una complessa rete di favori, accordi e compromessi nella quale erano coinvolti  finanziatori, organi politici e gli stessi soggetti che avrebbero dovuto supervisionare, nell’interesse dei vari “stakeholders”, le attività dell’azienda stessa.

In conclusione, meritano un accenno anche le polemiche che hanno coinvolto banche d’investimento ed agenzie di rating riguardo alla recente crisi finanziaria. La collusione fra le stesse è di fatti ritenuta essere responsabile della diffusione di strumenti finanziari ad alto rischio dotati di un punteggio “gonfiato”, il che avrebbe permesso alle banche di lucrare profitti ai danni degli investitori, e, come si è visto negli ultimi anni, della società in generale. Il riferimento va naturalmente ad i famigerati titoli “derivati”, costruiti da parte di SPE sulla base di mutui concessi a soggetti a rischio, ceduti a queste da banche commerciali. I titoli così emessi erano scambiati su larga scala, grazie all’intervento di importanti banche di investimento (alcune delle quali sopra citate in merito al caso Parmalat), e alle valutazioni rivelatesi poi non affidabili delle agenzie di rating.

Il problema dell’asimmetria informativa e dei conflitti di interesse è dunque centrale nel sistema finanziario, poiché abbiamo visto come la mancanza di trasparenza possa condurre, e regolarmente conduca, la parti meno informate ad ingenti perdite, con danni che ben volentieri affliggono anche l’economia reale. Proprio per questo si rende necessario riflettere sull’effettiva indipendenza ed imparzialità dei soggetti addetti alla supervisione ed alla produzione e diffusione su larga scala di informazioni.

 

Ps: ecco una serie di link per chi volesse approfondire:

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