Quando il sovraffollamento è solo la punta dell’iceberg
La Camera dei deputati il 9 febbraio ha approvato il decreto legge denominato “svuota carceri“. In esso sono contenute alcune misure che dovrebbero ridurre e prevenire il sovraffollamento degli istituti di detenzione. Nel pacchetto si trovano:
1. l’innalzamento a 18 mesi della pena residua che potrà essere scontata ai domiciliari;
2. il trattenimento nelle celle di sicurezza (che spesso non sono attrezzate per questo) degli arrestati in flagranza di reato e per crimini minori in attesa della conferma di arresto da parte del giudice;
3. 57 milioni di euro per l’edilizia carceraria.
La situazione delle carceri italiane è piuttosto preoccupante. Secondo i dati rilevati dall’8° rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia dell’associazione Antigone, nei 206 istituti di pena italiani nel settembre 2011 si trovano 67.428, a fronte di 45.817 posti letto regolamentari. E così le condizioni igienico-sanitarie sono pessime, e spesso si sfiora la pena disumana e degradante contro la quale si esprimono sia la nostra Costituzione (art. 27. comma II) che la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (artt. 3 e 5), tanto che l’Italia è stata già condannata e richiamata dalla Corte europea per i diritti dell’uomo.
Che i detenuti nelle carceri italiane non se la passino splendidamente è dimostrato anche dall’elevatissimo numero di suicidi: durante il 2011 sono stati 66 i suicidi in carcere, mentre 23 persone sono morte per cause ancora da accertare, 96 per cause naturali e 1 per omicidio.
Insomma, se davvero ci basassimo sull’idea che «un Paese si giudica vedendo le sue carceri», come diceva il filosofo francese Voltaire, l’Italia precipiterebbe nel fondo di ogni classifica di civiltà e democrazia. Se poi si tiene conto anche dell’inchiesta pubblicata dal giornalista Lirio Abbate sul settimanale l’Espresso (n. 6 anno LVII) la situazione peggiora: il nostro Paese manca di risorse che permettano di garantire ai detenuti una vita comunque dignitosa, ma nello stesso tempo il sistema penitenziario italiano si caratterizza per cattiva gestione e spreco di denaro pubblico. Un taglio ai privilegi garantiti ai vertici del Dap (dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) e agli sprechi di alcuni ministri della Giustizia, il reinserimento degli agenti di polizia penitenziaria nelle carceri anziché negli uffici, potrebbero di certo far sì che il problema sovraffollamento sia in parte risolto.
Ma siamo sicuri che sia proprio questo il punto su cui battere? In un’intervista pubblicata su Il Journal, il dottor Emilio Santoro, docente di sociologia e filosofia del diritto all’Università degli studi di Firenze e direttore del centro di documentazione e ricerca su carceri, devianza e marginalità in Italia Altro diritto, ha spiegato come questo sia solo la conseguenza di un problema molto più profondo.
«Il mio vero timore è che si diffonda l’idea che il problema del sistema detentivo italiano sia il sovraffollamento, e che questo sia risolvibile tramite la costruzione di nuove carceri. Il problema vero, invece, riguarda i motivi della detenzione e soprattutto la tipologia di persone che vengono detenute. Il carcere è diventato un centro di quella che tecnicamente viene definita “detenzione sociale”. Al suo interno si trovano soprattutto tossicodipendenti, senza tetto, extracomunitari. Ed è questo il dato più preoccupante: l’uso del carcere come strumento di governo della marginalità. E non è un problema di costi. Implementare politiche pubbliche per la reintegrazione di soggetti marginali non costerebbe molto di più».
Il sovraffollamento degli istituti penitenziari, dunque, copre un problema di cui non si parla e che invece è molto più grave. E questo accade «in parte perché un programma sociale è più impegnativo – ha dichiarato Santoro – ma soprattutto perché oggi non sappiamo più cosa sia un programma di inserimento sociale. Una volta era chiaro: un programma di inserimento sociale consisteva nel dare al soggetto un lavoro fisso che gli consentisse di avere una vita stabile. Oggi il lavoro fisso non esiste più. E così da un lato abbiamo un taglio notevole ad altre agenzie diverse dal carcere, come i Sert, e dall’altro abbiamo la totale assenza di un’alternativa alla detenzione. Cos’è oggi il reinserimento? È questa la domanda da porci. Non si tratta solo di una questione legata alla crisi economico-finanziaria. La situazione è più complessa, perché anche se ci fossero più fondi, in questo momento non ci sarebbero proposte di percorsi alternativi. Le soluzioni sono tutte individuali, aleatorie, emergenziali. E una policy che preveda il reinserimento di un individuo marginalizzato dovrebbe essere a lungo termine».
Se non si risolve questo problema «qualunque soluzione è un palliativo». Palliativi come l’indulto, l’amnistia, il decreto recentemente approvato dalla Camera, l’ipotesi di liberalizzare gli istituti di detenzione.
«Al di là delle retoriche e delle ideologie punitive e segregazioniste, che ci sono e contano, dobbiamo riflettere su come la società stia cambiando. Se le carceri non hanno mai avuto una vera funzione riabilitativa, nonostante le buone intenzioni, oggi non abbiamo nemmeno il contesto per pensare vagamente di raggiungere quegli obiettivi, che leggiamo in Sorvegliare e punire di Michel Foucault, di trasformare il “socialmente deviato” nell’operaio educato e in grado di autocontrollarsi. La pressione retorica di coloro che dicono “dobbiamo rinchiuderli” funziona, ed è in aumento, non solo in Italia, ma in tutta Europa, perché non abbiamo niente da contrapporvi. Questo è abbastanza umiliante. Forse allora sarebbe meglio attuare un programma serio di depenalizzazione di alcuni reati e inventarsi qualcosa. Trovare nuove strade. Perché se no comunque, anche mettendo tossicodipendenti, senza tetto, malati mentali ed extracomunitari in strutture apposite senza prevedere un sistema di reinserimento nella società, si passerebbe semplicemente da una carcerazione che dura in eterno, a una presa in carico da parte di istituzioni sociali che dura in eterno».
Gran bell’articolo, complimenti! Per lavoro mi sono trovato a scrivere sul tema nei giorni scorsi. Penso che il Decreto appena approvato debba essere considerato un punto di partenza. Quello che al contrario non deve accadere è che ci si senta arrivati. I 57 milioni di euro per l’edilizia carceraria dovrebbero essere destinati al miglioramento delle strutture, e non a un aumento dei posti disponibili. Parallelamente dovrebbero essere sbloccate risorse per garantire la possibilità di scontare pene alternative alla reclusione anche a chi, ad esempio, non ha una casa, mettendo in moto iniziative concrete mirate alla re-inclusione sociale degli ex detenuti. Il timore è che, gettate le fondamenta, la costruzione della casa venga ancora una volta delegata alle iniziative dei singoli territori, e che quindi accanto a zone di eccellenza (che fortunatamente non mancano) permangano situazioni di grave criticità.
Tra gli aspetti positivi della seduta della Camera del 9 febbraio, l’approvazione dell’ordine del giorno sulla chiusura (prevista…) degli ospedali psichiatrici giudiziari entro il 31 marzo 2013. Un’esperienza modello per il superamento di tali strutture potrebbe essere quella della residenza socio-riabilitativa di Sadurano, in provincia di Reggio Emilia. Sperando ovviamente sia soltanto il primo passo sulla strada che porta all’abbandono “dell’uso del carcere come strumento di governo della marginalità”.
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bell’articolo. e grazie anche al commento di Claudio. ho apprezzato il punto di vista diverso sulla situazione. la questione sociale credo sia il punto nodale della questione, e non solo per i carceri, ma anche per la sanità. Sabrina