La maschera dell’assenza: tre dischi invisibili


Nelle sue “Lezioni americaneItalo Calvino individuava tra le parole chiave per il nuovo millennio la “Visibilità”. Col senno di poi possiamo dirlo: non è andata esattamente così. Tra le maschere del contemporaneo c’è anche l’assenza. Sparire, nascondere tracce ed identità, rimescolare le carte.
Marketing o poetica? Il confine è sbiadito. Ma non è questo il punto. Tre dischi per altrettanti artisti che hanno scelto la sommersione come scelta di vita. Ed hanno fatto centro.

APHEX TWIN – Drukqs (Warp Records, 2001)
Di lui si sanno molte cose: è eccentrico al punto di volersi mettere un carrarmato in giardino, è nato in Cornovaglia nel 1971, si chiama Richard D. James (ma sarà vero?) e traffica con sintetizzatori da quando era bambino. Poi ci sono gli pseudonimi, gli aneddoti, il culto alimentato dalle chiacchiere della Rete.
Insomma, Aphex Twin è un oggetto misterioso. Gioca a nascondersi, a confondere la comunità. Potrebbe soffrire di schizofrenia, di sdoppiamento della personalità, o forse di logorrea. Ma è anche uno dei più influenti musicisti contemporanei. “Drukqs” è un disco che oscilla tra il manifesto e la paranoia. Ed è con ogni probabilità uno degli album più complessi e rivoluzionari degli ultimi (diciamo) 30 anni. Provocatorio, certo. E volutamente (?) snob, anticonformista ed intellettualoide. Però, però. Richard D. James una volta dichiarò una cosa del tipo: «esistono due tipi di album, quelli che faccio per me e per i miei pochi amici, e quelli che mi fanno guadagnare da vivere. ». “Drukqs” appartiene senza dubbio alla prima categoria. È un album doppio, 100 minuti di delirio che potrebbe sfiancare l’ascoltatore (difficile, se non impossibile, reggere il colpo mandandolo giù in un sol sorso). Ma è anche un capolavoro che riesce a spiazzare, perché le barriere architettoniche dei presunti “generi” vengono abbattute con sdegno. Intuizioni alla John Cage (con il santino di Erik Satie a portata di mano), techno acida, idm, ambient. Drukqs” è un disco punk nella forma, indefinibile nella sostanza. Un folle esercizio di stile? Potrebbe anche essere. Resta il fatto che dal 1991 (anno di pubblicazione del primo Analogue Bubblebth) Richard D. James continua a stupire il mondo della Musica, e nessuno è in grado di capire cosa abbia in testa, o dove voglia
arrivare.

BURIAL – s/t (Hyperdub Records, 2006)
L’anonimato, per Willian Bevan, è durato giusto un paio d’anni. Dal 2008, infatti, sappiamo che Burial ha un nome ed un cognome. Il disco in questione è però datato 2006, e quando uscì avvenne una piccola rivoluzione copernicana nel mondo dell’elettronica.Dubstep”? Ma che diavolo è? E chi si nasconde dietro Burial? Qualcuno azzardò: Aphex Twin (aridaje). Altri azzardarono Fatboy Slim. Poteva essere il passatempo di una star annoiata, una sorta di dopolavoro per un artista già affermato. E invece. Invece lo sconosciuto Willian Bevan aveva deciso di travestirsi da Burial per parlare una lingua ancora sconosciuta. Oddio, è vero che in musica nulla si crea ma tutto si distrugge per poi ricostruire. Ma il dubstep, ormai realtà, può a ragione essere considerato una delle più grosse novità dei tanto chiacchierati Anni Zero. 2step, garage Uk, influenze black, bassi presi in prestito dai Massive Attack, pioggia notturna su una città desolata, fumosi quartieri industriali e degrado urbano. La voce, qua, serve a poco. I suoni parlano una lingua atavica, primitiva. Costruiscono mondi che esistono nell’immaginario post atomico. Poi arrivarono Kode9, Bare Noize, Skrillex e Space Ape. Ma il precursore fu Burial: invisibilità ed afasia.

DANGER MOUSE – The grey album (2004)
Eccolo qua, Brian Burton, uno dei primi a sdoganare l’invisiblità nel mondo del rock che conta e (sicuro) pioniere di una certa estetica della maschera. Danger Mouse sa fare il suo mestiere, e bene, al di là delle polemiche (promozionali) con la Emi all’epoca dell’uscita di “Dark night of the soul” (album a quattro mani con il compianto Sparklehorse e con una marea di ospiti illustri). Il “Grey album” finisce in rete come bootleg e diventa un piccolo oggetto di culto. All’epoca imperversavano i mash-up, e Brian Burton decise di fare taglia e cuci con i Beatles impastandoci la voce di Jay – Z. Doveva essere un album fatto per divertimento. Finì per attirare attenzioni trasversali, da Beck ai Black Keys.

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