Le parole (e il loro uso) sono importanti


Apericena, arcisicuro, barbatrucco, cinecocomero, crunch, emo, enoturismo, gollonzo, impanicarsi, inguattare, nativo digitale, pinocchietto, shot o shottino. Questi sono solo alcuni dei 1500 neologisimi inseriti quest’anno nello Zingarelli, famoso dizionario della lingua italiana.

L’uso delle parole cambia con il tempo, segue lo sviluppo della società e si evolve con essa. L’invenzione di nuovi vocaboli segue il processo di invenzione di nuove tecnologie. Il cambio di registro segue l’allentarsi di certe rigidità che fino a poco tempo fa ingessavano i modelli di comportamento all’interno della società stessa. Un esempio? il cambio di “registro” dal “voi” degli anni ’30 al “tu” di oggi. La globalizzazione ha portato la lingua ad aprirsi anche all’influenza di termini stranieri, oggi comunemente usati nel nostro parlare e scrivere quotidiano, talvolta anche esagerando.

inventare_paroleTuttavia, ci sono anche alcuni aspetti negativi di questa evoluzione. Il primo è che, se da una parte ci sono i neologismi, dall’altra ci sono parole che vanno pian piano scomparendo; secondo l’Osservatorio Zanichelli sarebbero ben 2.900 le parole italiane da salvare, da abominio a fragranza, da sapido a zotico. Il secondo riguarda invece l’uso e l’invenzione di parole nuove quando non ce ne sarebbe assolutamente bisogno. Un esempio particolarmente esplicativo è quello portato da Sergio Zicari a proposito dell’evoluzione di quelle parole legate a mestieri umili, poco apprezzati socialmente e spesso oggetto di scherno.

Le evoluzioni dello spazzino.

Lo “spazzino”, è un termine – e professione – che un tempo aveva una connotazione negativa, per il contatto diretto dell’operatore con i rifiuti.
“(Lo spazzino) si chiamava così perché, appunto, ‘spazzava’ via i rifiuti domestici. Se si chiedeva a un bambino quale fosse il mestiere di suo padre, lo diceva ad alta voce se questi faceva l’impiegato, il medico, il commerciante, lo diceva a mezza voce se faceva l’operaio, diventava rosso dall’imbarazzo se faceva lo spazzino. E non era diverso se la domanda veniva fatta alla moglie o al diretto interessato.
Come hanno pensato i nostri comunicatori di risolvere questa imbarazzante situazione? Semplicissimo. Hanno inventato un nuovo nome: ‘netturbino’. Fu un successo, all’inizio. Dire ‘netturbino’ dava l’idea di un mestiere importante, visto che pochi sapevano cosa volesse dire. E anche se al nome si faceva seguire una spiegazione, il termine sembrava già più elevato di ‘spazzino’. Ma, col tempo, la nuova parola è andata pienamente a sostituirsi alla precedente sino ad assumerne la stessa scarsa valenza sociale. Si era così al punto di partenza.
Cosa fare? Ecco i nostri bravi comunicatori industriarsi a coniare un nuove termine. E fu così che venne alla luce il fantastico ‘operatore ecologico’. Un’idea geniale, perché il semplice raddoppio di parole necessarie faceva sembrare doppiamente importante la relativa professione. Inoltre lo specifico aggettivo si sposava con la crescente sensibilità am
bientalista del pubblico in genere. Al momento questo nome suona bene, ma quanto tempo ci vorrà perché riassorba in sé tutte le valenze negative dei precedenti ‘netturbino’ e ‘spazzino’? Appena la gente accompagnerà la parola ‘operatore ecologico’ all’immagine di ‘colui che raccoglie i rifiuti’, saremo tornati al punti di partenza”.

Dunque, comunicare non significa inventare nuove parole, ma far capire. words_diceSignifica mettere le altre persone in grado di comprendere il mondo, non abbagliarle con paroloni di difficile comprensione. Del resto, il verbo comunicare viene dal latino “communico” che significa mettere in comune, rendere partecipe. Comunicare è riempire le parole di significati e, all’occorrenza, ri-plasmare quegli stessi significati, arricchirli o limarli, secondo le nuove necessità della società.

Non serve invece a nulla lasciare i contenuti immutati di significato e appiccicarci sopra una etichetta sostitutiva. Ancor meno, salvo che le nostre intenzioni non siano proprio quelle di fuorviare o ingannare deliberatamente il ricevente delle nostre comunicazioni, serve coniare nuove parole per dire la medesima cosa che quelle “vecchie” esprimono già esaurientemente.

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