La resistibile ascesa della spesa pubblica. Come il debito pubblico italiano divenne una favola


“I governi dal 1980 al 93 ci hanno portato ad avere quel macigno che incombe per 80 milioni su ciascuno di noi, anche sui bambini appena nati e che nasceranno domani; ma la colpa non è stata soltanto del pentapartito, la colpa è stata della sinistra, perché delle 2000 leggi che hanno provocato quel danno immenso il 90 per cento sono state approvate grazie al partito comunista.’’ Così Silvio Berlusconi rivedeva a suo modo il grande credo della seconda repubblica. Quello sul debito pubblico, generato e non creato nella stessa sostanza della prima repubblica italiana. Ma non solo Berlusconi. “Il governo fa bene a criticare il pesante debito pubblico ereditato e certo non potrà appesantirlo ancora di più’’, scriveva al corriere della sera Tommaso Padoa-Schioppa nel 2006. Perfino oggi che siamo arrivati ai necrologi di questi lunghi vent’anni di safari, leggiamo commenti, come questo di Francesco Giavazzi, in cui giudica la seconda repubblica ‘’Un insuccesso che non possiamo giustificare col livello di debito ereditato negli anni 80: la storia insegna che dal debito si esce[..] con la crescita.” Anche chi con il sistema politico ed economico Italiano ma ancor più in alto capitalistico non vorrebbe aver nulla a che vedere, non sfugge però alla grande fede di fine secolo :‘’Negli anni 80 hanno ipotecato il nostro presente, ora ipotecano il nostro futuro’’ oppure ‘’La crisi la paghi chi ha creato il debito’’, tutti fortunati slogan dei celeberrimi indignados all’italiana. Per finire poi, a guardare bene viene fuori anche l’immancabile barzelletta/battuta di un precoce Berlusconi ,siamo solo nel 1996, quasi un certificato di garanzia, per l’idea più trasversale e più rappresentativa di vent’anni di vita politica in Italia: “Quando un governo riceve dai governi precedenti 3 milioni di miliardi di debito…ma si deve preoccupare per qualche miliardo di debito in più?”.

In questi lunghi anni dal salotto televisivo di Vespa alle pagine dell’Unità su almeno una cosa i nostri politici ed in fondo anche noi illusi o disillusi elettori siamo stati tutti d’accordo: questo debito pubblico, grande protagonista di ogni finanziaria e di ogni riforma mancata o varata, lo abbiamo ereditato. Da chi di preciso non è dato a sapersi o domandarsi, che siano stati i comunisti o gli amici di Andreotti oppure Craxi e i quaranta ladroni, non importa. È come un’eredità di un lontano parente scomparso, te la tieni e basta.

Il problema è che a un certo punto, quando questo debito rischia di mandarci tutti a quello che Sordi chiamava quel paese là e che oggi ben conosciamo col nome di default, si inizia a problematizzare anche la storia, quel comodo pacchetto di verità che il dibattito politico non mette mai in discussione. La storia in questione è quella della resistibile ascesa della nostra spesa pubblica.

Giusto per capire subito che si parla di economia e non di metafisica, pare interessante misurarsi con qualche numero. Oscar Giannino in un suo intervento al forum “Anatomia del debito pubblico italiano”, ha presentato un non troppo complesso computo del nostro debito riconducendo il dato dal canonico rapporto col Pil al suo valore aggregato. Si premette che lo studio è stato eseguito con criteri di scientificità, mediante la rivalutazione dei dati su debito e Pil rispetto al rapporto di cambio lira/euro odierni. Ciò che ne risulta è uno stock di debito odierno pari a 1931 miliardi di euro. Mentre il valore aggregato, alla fine del settimo governo Andreotti, la celebre eredità della prima repubblica, accumulata in 46 anni di spesa dissennata, era ‘’appena’’ di 795 miliardi. I numeri sono numeri e in quanto tali possono essere spiegati e compresi ma difficilmente possono mentire. Lo stesso rapporto debito Pil  nel decennio fra il 1980 e 1990 decolla, ma durante la seconda repubblica continua il suo aumento in maniera sostanzialmente inesorabile. Questi dati potrebbero essere compresi rapportando la bassa crescita o peggio la stagnazione del sistema economico italiano durante gli anni novanta e i primi duemila, al mantenimento del sistema di spesa pubblica adottato soprattutto negli anni ottanta. Esso è stato moltiplicato, non tanto da una decisione cosciente d’implemento del deficit spending ma dal gravare degli interessi nel tempo accumulati. Un’analisi che impietosamente deve ricondurre una quota maggiore della metà del debito che oggi minaccia il nostro paese più all’inerzia dei governi della seconda repubblica che alle decisioni di quelli della prima. Certo conoscendo il futuro, le politiche di spesa pubblica inaugurate dalle composite maggioranze politiche degli anni settanta e ottanta portarono a una crisi del debito sovrano già durante i primi anni novanta. Ma l’oggi si vive conoscendo il presente non il futuro. Il problema del secolo, in tutto l’occidente e non solo in Italia, era quello dell’equità sociale. Il nostro paese si era da poco industrializzato e il progresso più che una fede era stato per quelle generazioni un’esperienza di vita. L’istituzione del sistema del welfare italiano, che in larga parte assorbì il gettito di deficit pubblico, fu la soluzione di quella classe politica al problema della sua epoca. Quel debito fu originato da una decisione, assunta per altro alla luce della possibilità di condurre una politica monetaria autonoma di contenimento del debito, anche se poi questa ci si è ritorta contro valutando il connesso andamento dei tassi delle nuove emissioni. Al contrario 1136 miliardi, ovvero più della metà del nostro attuale debito, sono stati originati dall’inerzia del sistema politico secondo repubblicano. L’ostinazione o la necessità di non voler decidere nulla ha protratto politiche di spesa e fiscali, perché ricordiamo che il nostro stato sociale  non viene finanziato solo dal deficit ma in considerevole parte anche dal fisco, pensate per l’Italia degli anni settanta e varate per quella degli anni ottanta. È stata l’incapacità di comprendere quale veramente fosse la sfida dei nostri tempi, il vero peccato originale di una stagione politica protesa fino allo spasmo a comunicare tanto da essersi dimenticata di ascoltare il paese che doveva organizzare. Una politica talmente fattasi arte di guardarsi allo specchio per vincere competizioni elettorali da perdere di vista un paese in cui la pressione fiscale stava trasformando il sistema produttivo in un frankenstein che zoppicando si regge in piedi con l’aiuto dell’evasione. La sfida del nostro tempo non può che essere quella di tornare a produrre crescita e ricchezza. Ora che l’illusione novecentesca di trovare una grande idea guida che razionalizzasse la vita associata si sta spegnendo fra la crisi dell’ideologia del mercato, consumatasi nel 2008 e quella dello stato interventista che divampa in Europa, tutto quello che la politica può fare è pensare a risolvere le sfide dell’oggi accettando con coscienza le inevitabili contraddizioni che essa stessa genererà per il domani. Anche se tutte le ideologie sono state consumate e ogni cura prescritta a questo mondo ha dimostrato generare non meno gravi malattie, a nulla ci servirà una politica inerte che si rassegni a non decidere nulla. Concluderò con un’esortazione che Max Weber rivolse quasi un secolo fa a un conferenza di giovani ricercatori: “Verrà il mattino ma è ancora notte, se volete domandare passate un’altra volta. Il popolo al quale veniva data questa risposta ha domandato e atteso ben più di due millenni e conosciamo il suo sconvolgente destino. Ne vogliamo trarre l’insegnamento che anelare e attendere non basta e faremo altrimenti: ci metteremo al nostro lavoro e adempiremo alla richiesta di ogni giorno, come uomini, quali siamo destinati ad essere”.

1 comment

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  1. sterfano

    Complimenti per come hai elaborato l’argomento non è semplice per un giovane trattare il tutto con questa lucidità forse bisognerebbe che i famosi “indignados” affrontassero il problema con razionalità e non ideologia miope.
    Credo anch’io che la “Politica” debba fare obbligatoriamente l’interesse del paese e non di chi in cambio di benefici ottiene voti.

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