Quando la legge è una maschera


Difficile definire cosa sia una regola: può essere una legge, una consuetudine, una convenzione sociale, un confine invisibile e permeabile. Ma c’è sempre la certezza che dove ci sono regole, c’è conflitto.

Con conflitto intendo quella situazione di competizione non lasciata all’anarchia, cioè dove tutto è permesso; né di gioco, dove tutto è previsto. Nelle competizioni ci sono norme che lasciano spazio alla creatività di coloro che competono, fosse anche volta all’elusione dei limiti che ufficialmente accettano. Se parliamo di competizione sociale, il premio in palio è il consenso e dunque, il potere. In questi giorni vediamo come la politica si dia grande affanno; si organizzi per una competizione, quella elettorale, che si agita come uno spettro da più di un anno. Interessante notare che le regole, in uno stato di caos sociale diffuso, siano usate come armi, interpretate, personalizzate o assolutizzate e che da struttura della competizione, ne siano diventate l’oggetto. Maggioranze assolute o relative, parlamentari o popolari, da una parte e dall’altra ognuno fa dei regolamenti il proprio vangelo, e ognuno, profeta in casa propria, li interpreta nel modo che ritiene opportuno. Tutto questo, al di la dei giudizi di valore, ci indica un dato importante: le regole sono convenzioni. Non volendo rischiare di inoltrarmi nel secolare dibattito fra GiusnaturalismoDiritto Positivo, tuttavia, soprattutto nel contesto attuale, alla luce del movimento degli indignados, dei frequenti scioperi e di un sistema che, ormai da tempo, mostra tutta la sua fragilità, è utile domandarsi quale sia il principio di legittimità dei regolamenti che ordinano, spesso in modo invisibile, la nostra vita.

O ancora meglio: l’attuale crisi, che prima che economica è del futuro dell’occidente, nasce dall’elusione delle regole che ci si è dati? O è un errore sistemico connaturato alla storia del nostro sviluppo? Impossibile dirlo oggi, ma quel che appare dalle cronache è la sicura perdita di fiducia nelle istituzioni pubbliche e in tutto un sistema di organismi privati, come le banche, da sempre implicitamente considerate dai più, indiscutibili.

Per quel che riguarda il terzo settore, il panorama è estremamente ampio ed eterogeneo. Il volontariato, nello specifico, è regolato dalla legge quadro 266\1991, in cui sono definiti limiti e prerogative dell’azione volontaria senza scopo di lucro. L’espansione del fenomeno ha richiesto vari aggiornamenti che, se da una parte sono ovviamente necessari in uno stato di diritto, a volte rischiano di apparire come scogli scoraggianti da parte di chi è animato dall’iniziale volontà di creare nuove realtà associative a sostegno della propria comunità. Da qualche anno le informazioni in merito sono più chiare e la fondazione di una associazione non è così complessa. Resta il fatto che se da una parte non si dimentica mai di ringraziare il volontariato per il sostegno che sempre più dà al welfare, dall’altra si riscontrano forti tagli ai finanziamenti per i servizi di sostegno del terzo settore, il più discusso quello  sull’esenzione delle spese postali.

Alla luce di questa divisione tra parole e azioni, che non stupisce quando è riferita al mondo della politica, viene da chiedersi, una volta di più, che cosa ci aspetti. Uno stato, oggi, dovrebbe darsi delle norme per stimolare il tessuto sociale alla crescita, non solo economica, o per scongiurare possibili minacce interne ed esterne? Una legge per punire o per premiare il cittadino? O forse: leggi fatte con le stomaco o con il cervello?

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