La mia libertà finisce dove comincia la tua


« Cara lettrice, caro lettore,
in queste ore Wikipedia in lingua italiana rischia di non poter più continuare a fornire quel servizio che nel corso degli anni ti è stato utile e che adesso, come al solito, stavi cercando. La pagina che volevi leggere esiste ed è solo nascosta, ma c’è il rischio che fra poco si sia costretti a cancellarla davvero
» . (continua qui: Wikipedia comunicato 4 ottobre 2011 )

Queste le parole che ci siamo sorpresi a leggere il 4 e il 5 ottobre 2011 aprendo una qualsiasi pagina di Wikipedia Italia, versione italiana dell’enciclopedia online collaborativa e gratuita che vanta 65 mila clic al secondo per un totale di 60 milioni di accessi al giorno.

Il motivo? Il governo Berlusconi ha riproposto pari pari la cosiddetta “norma ammazza blog” nel disegno di legge sulle intercettazioni che prefigura un nuovo tentativo di censura ad Internet. Un disegno di legge che cerca di farsi strada dal 2007, quando al governo vi era ancora Prodi. Un progetto che sembra dunque essere apartitico, ma certamente non apolitico, poiché questa legge avrebbe permesso al governo di turno di controllare il traffico delle informazioni sul web facendo leva sul diritto di rettifica da parte degli autori di post e articoli. La proposta di legge impone anche multe fino ai 12.500 euro per testate giornalistiche e blog che non editano una rettifica entro 48 ore dalla pubblicazione dell’articolo, in un calderone privo di differenze sostanziali tra pareri personali, opinioni ed editoria vera e propria.

Ma con quale motivo? Essenzialmente nessuno. Infatti, ai fini della pubblicazione della rettifica, i motivi del ricorso o la fondatezza dello stesso non avrebbero avuto importanza: sarebbe bastata la richiesta avanzata dal soggetto sentitosi leso affinché il blog, sito o giornale online “pubblicante” fosse legalmente costretto a rettificare. Come Wikipedia fa notare, infatti, la valutazione della “lesività” di detti contenuti non sarebbe stata rimessa a un Giudice terzo e imparziale, ma unicamente all’opinione del soggetto che si fosse presunto danneggiato.

Non temete, possiamo tirare un sospiro di sollievo: la decisione del comitato dei nove alla Camera del 5 ottobre ha infatti trovato un accordo che salva i blog dall’obbligo di rettifica e dal rischio di dover pagare multe astronomiche. L’obbligo entro 48 ore resta quindi valido solo per i siti d’informazione registrati ai sensi della legge sulla stampa. Il che sembrerebbe avere un senso: « La libertà di pensiero, come di ogni attività dello spirito, vale se rispetta la libertà di pensiero degli altri: essa perciò non deve offendere il pensiero altrui. Anche questo non è un limite, è una difesa della libertà stessa». (Igino Giordani)

Ma siamo davvero sicuri che siano questi ideali di difesa e di rispetto di cui parla il giornalista Giordani ad avere spinto il governo a riproporre questo tentativo di legge?

Come giustamente ricorda Wikipedia, esistono già delle norme che regolano la libertà di parola nei limiti del rispetto degli altri: ogni cittadino italiano è  infatti tutelato in tal senso dall’articolo 595 del Codice Penale, che  punisce il reato di diffamazione con multe salate e reclusione da sei mesi a tre anni. Perché dunque aggiungere lacci e lacciuoli ad una legge che è già ben chiara e che non ha mai creato problemi? Perché negare ai cittadini la libertà di esprimere la loro opinione, il loro disappunto proprio in un momento cruciale per lo stato come quello attuale? Le ipotesi di correlazione non casuale tra questo tentato “imbavagliamento” del web e la crisi nella quale ci stiamo addentrando sorgono spontanee. «Certo deve essere problematico avere un premier che controlla gran parte dei media ». Parole di Jimmy Wales, fondatore di Wikipedia intervistato sullo sciopero della stessa.

« La libertà di parola senza la libertà di diffusione è solo un pesce dorato in una vaschetta sferica ». (Ezra Pound)

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