L’era dei fallimenti


Mai come in questi ultimi 15 anni, il default per nazioni economicamente prospere è stato semplice. Ma cosa significa esattamente questa parola?

In sostanza, si tratta dell’insolvenza di un ente (in questi casi lo Stato), il quale non è più in grado di adempiere al pagamento delle rate di interesse o al rimborso del capitale alla naturale scadenza del debito.Il default è la naturale anticamera dell’insolvenza, a cui segue lo stato di bancarotta”.

Importanti aziende hanno recentemente fallito, ad esempio in Italia Parmalat e Cirio. Negli USA Enron e Lehman brothers. Come si sono rialzati stati che, in passato, sono caduti in default?

RUSSIA 1998: Il rublo si svalutò rispetto al dollaro. Ci fu default sul debito interno e una moratoria di 90 giorni imposta sulle obbligazioni delle banche russe verso creditori stranieri per evitare un default di massa del sistema bancario. La Russia si riprese, poichè era ancora nella fase embrionale del suo sviluppo e potè sfruttare al meglio la globalizzazione dell’economia grazie all’aumento di domanda di gas e petrolio.

 

ARGENTINA 2002: Invece di sacrificare il debito “interno” si decise di non rispettare il pagamento di un debito da un miliardo di dollari contratto con la World Bank. Ciò comportò la chiusura dei finanziamenti esteri e quindi l’impossibilità di pagare i debiti. La successiva decisione di generalizzare il debito (default strategico) provocò un’inflazione altissima, ma, essendo un’economia emergente, riuscì a riprendersi.

 

ISLANDA 2008: Ci si domanda ultimamente se sia un modello replicabile in Italia: azzerare i debiti e mandare a casa i politici colpevoli della situazione, creando una nuova Costituzione dal basso. All’epoca dei fatti gli islandesi decidono di non pagare debiti contratti da banche private nei confronti di altri privati, guidati ideologicamente da Torfason, un musicista che ha guidato la “rivoluzione”.Ma la situazione islandese è decisamente particolare. L’Italia è un Paese troppo grande, incapace di sopportare anche le importanti conseguenze che, comunque, ci sono state in Islanda e, in ogni caso, con un’insufficiente partecipazione e alfabetizzazione tecnologica. Molti pensano che con il default italiano si assisterebbe alla scomparsa dell’euro, ma è veramente così?

L’economista Loretta Napoleoni scrive nel suo libro “Il contagio” :«Il problema dell’euro è che, a livello europeo, non esiste né un protocollo né una regola per l’uscita temporanea o permanente di uno Stato dalla moneta unica. Il che significa che la Grecia, ma anche gli altri paesi Piigs come l’Italia sono in balia dei sentimenti del mercato. […]Significa che se i mercati, come sta succedendo con la Grecia, improvvisamente decidono che questi Stati non sono in grado di ripagare il debito, non c’è una regola su come uscire».  Napoleoni sostiene quindi la necessità di far uscire temporaneamente dall’euro i paesi in bancarotta (tra cui virtualmente l’Italia) aspettando che si riprendano. Ma l’uscita italiana dall’euro richiede l’appoggio degli altri Stati europei, perché uscire senza un piano comune significherebbe far crollare gli istituti di credito stranieri. Ma di questo non se ne parla.

Will Hutton, su Internazionale, parla di un uso sbagliato del capitalismo: «A provocare l’attuale crisi dell’euro non è stata una camicia di forza, ma l’interazione del sistema della moneta unica con una crisi epocale del capitalismo che i suoi fondatori e sostenitori, così come i suoi critici, non avevano preventivato». Se la crisi finanziaria del 2008 fosse scoppiata in un’Europa con diversi cambi valutari fluttuanti e senza una banca centrale europea, i sistemi bancari di Irlanda, Portogallo, Grecia, Spagna, Italia e Francia sarebbero crollati come birilli, aggravando ulteriormente gli effetti della crisi in Gran Bretagna e negli Stati Uniti.

Quanto tempo rimane all’Italia per scongiurare la catastrofe? Se non si farà qualcosa per rimediare, l’Italia fallirà, e gli ingrendienti ci sono tutti: debito pubblico alle stelle, crescita quasi di zero negli ultimi dieci anni, sfiducia nelle banche italiane, scarsa credibilità del nostro Paese all’estero e fuga di cervelli e aziende. L‘agenzia di rating Standard & Poor’s ha bocciato l’Italia assegnandole una A, ma guardando le quotazioni su titoli di Stato e derivati, si scopre infatti che il mercato è ben più pessimista, «quotando da giorni l’Italia intorno ai 500 punti base» e «stima per il Belpaese una probabilità di finire gambe all’aria del 34% (secondo i calcoli di StatPro) o del 32% (secondo quelli del Credit Suisse). Probabilità non coerenti con la ‘A’, ma con rating ben più bassi: compresi tra la ‘B’ e la ‘CCC’».

L’allarme lo lanciano dunque gli investitori anche se i mercati non sempre ci azzeccano nelle loro previsioni. L’Italia è troppo grande per essere salvata e se la dovrà cavare perlopiù da sola.

1 comment

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  1. Mario Molinari

    E’ vero che l’Italia è troppo grande per essere salvata ma è anche vero che è troppo grande per essere abbandonata! Il problema vero è che abbiamo perso la credibilità non solo sui mercati ma soprattutto a livello politicointernazionale dove ormai godiamo di scarsa considerazione.Sono indispensabili urgentissime decisioni per lo sviluppo e sulla riduzione dei costi della macchina pubblica compresi quelli della politica che ,con grande mio stupore,non sono stati .di fatto. minimamente toccati dalle recenti manovre economiche. A margine vorrei ricodare che il passaggio da PIGS a PIIGS
    sembrava solo una esercitazione teorica ed invece….

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