Valvola di sfogo


C’è una parte di te che continui a reprimere. È la tua parte violenta. So che questa cosa non ti piace, ma anche se ti ritieni una brava persona, hai anche tu un seme nero piantato nel cuore.

Vorrei conoscere l’uomo che dice di non aver mai provato una pulsione violenta. Facile scadere in frasi fatte. L’uomo è pur sempre un animale, porta nel suo corredo genetico l’istinto predatore che lo spinge alla sopraffazione dei suoi simili.

Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza.

La necessità di interagire con gli altri ha portato l’uomo a definire meccanismi di contenimento di questa pulsione. Per molti secoli – o come avviene tuttora in molte parti del mondo – la guerra stessa adempiva questo ruolo. Forse inconsapevolmente l’uomo ha saputo tradurre anche l’istinto più basso in un risultato alto. Prendo due esempi sugli infiniti possibili.

Il primo è la musica. In un contesto sociale che reprime la violenza, si moltiplicano gli auricolari alle orecchie. Troppo facile parlare di rock e derivati più o meno estremi (che in alcuni casi hanno davvero una valenza artistica): parlo di musica classica. Se non avete mai assistito a un evento simile, vi auguro di poter ammirare da vicino un direttore d’orchestra totalmente rapito dal brano in esecuzione: il sudore, i gesti ampi e rapidi, i nervi tesi, lo scomporsi di capelli, abiti e palpebre.

Già perché la violenza è prima di tutto azione. La società moderna ci invita a ridurre il più possibile l’attività fisica, il camminare, il faticare, così il corpo rivendica i suoi diritti e la natura per cui è stato ideato. Ho praticato karate per diversi anni e sono tuttora convinto che il suo fascino risieda nell’autocontrollo che promette. Ma durante un soggiorno in Irlanda, sono rimasto incantato dal rugby. Sul campo esseri umani di oltre cento chili, forse non troppo dediti a virtute e canoscenza, si muovono coordinati da una strategia di squadra, rispettano una serie di regole anche complesse, urtano il corpo dell’avversario con grande rispetto senza rimanere accecati dalla furia. Un rispetto che coinvolge tutto il pubblico quando durante i calci piazzati, decine di migliaia di persone si uniscono in un religioso silenzio.

Il contributo sociale che ha lo sport nella catarsi collettiva dalla violenza è inestimabile. Lo sport aiuta l’individuo a liberarsi  dalla frustrazione, contributo ancor più evidente n quelli di squadra, proprio dove controllare la propria aggressività è più difficile, ma indispensabile. Ci si muove su un campo minato. Quanto è facile degenerare possono spiegarlo bene gli arbitri picchiati a tutti i livelli di qualsiasi evento sportivo, gli steward agli stadi, i baristi costretti a sospendere liti su temi sportivi.

Soprattutto per chi assiste questo pericolo è maggiore. Quando la mattina vedo ragazzi assopiti sui seggiolini dell’autobus imbottiti di doppio pedale e urla strazianti, mi chiedo dove vadano a finire le sostanze prodotte dal cervello responsabili del divieto di ascoltare musica durante competizioni sportive.

Urlare a un concerto rock, scatenarsi in discoteca o sciogliersi nel sudore di una corsa, sono meccanismi a disposizione di tutti per sfogare il nero che c’è in noi. Saggezza dell’uomo sta nel ricercare forme sempre più alte per soddisfare questa necessità; forme alte come l’arte e lo sport, che coinvolgono e non dividono.

3 Commenti

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  1. Giovanni Tomassini

    …a teatro le parti violente di noi si mettono in scena e si esorcizzano, ma la condizione principale è tirarle fuori, metterle in evidenza, guardarle in faccia e poi farle esplodere.

    Grazie Francesco, bella riflessione.

    Gio

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