Fabrizio de Andrè. Frammenti di guerre
«[…] e se gli sparo in fronte o nel cuore/ soltanto il tempo avrà per morire/ ma il tempo a me resterà per vedere/ vedere gli occhi di un uomo che muore».
Fabrizio de Andrè: bellissima voce, levigata dagli anni da un fiume di sigarette. Bellissimo cuore, il cuore dei grandi poeti, aperto al cielo, alle donne che amano, ai soldati che muoiono, ai potenti che comprano, ai delinquenti che pagano. Dalle puttane, dai carcerati e dagli emarginati delle sue prime ballate, passò agli indiani d’America, agli umili morti di Spoon River, ai poveri cristi dei vangeli apocrifi, ai transessuali, a chiunque incarnasse la poesia della sconfitta. Riuscì persino a perdonare e a cantare le ragioni dei banditi sardi che lo rapirono e lo tennero prigioniero in Sardegna con la compagna Dori Ghezzi.
De Andrè aveva uno zio, lo zio Francesco, che dopo l’ultimo conflitto mondiale tornò dal campo di concentramento in Germania smarrito, stralunato. I pochi ricordi che Fabrizio e suo fratello riuscirono a strappargli evocavano scene inimmaginabili. Persuaso da quei racconti scrisse “La guerra di Piero”, una delle sue più celebri ballate. Una denuncia alla guerra senza proclami, ma con un velo di tristezza, di rassegnazione. Piero non spara, ha davanti un nemico con le sue stesse paure, un fratello con la sola colpa di indossare una divisa di un altro colore, che però non esiterà a colpirlo. I vinti sono i veri protagonisti dei suoi testi. De Andrè riesce a restituire dignità e bellezza al loro universo, perché proprio nei confronti de gli sconfitti si riversa maggiormente l’arroganza del potere.
«Quando il sole alzò la testa oltre le spalle della notte/c’eran solo cani e fumo e tende capovolte/tirai una freccia in cielo per farlo respirare/ tirai una freccia al vento per farlo sanguinare/ la terza freccia cercala sul fondo del Sand Creek».
1864. Le truppe americane attaccano un villaggio indiano ai piedi del fiume Sand Cre ek . Fu un massacro premeditato, uno degli episodi più vergognosi nella storia degli Stati Uniti d’America in cui emerse la ferocia dell’uomo e una spietata crudeltà nei confronti di donne e bambini. Mentre gli uomini erano a caccia, il villaggio fu distrutto e con esso anche le vite dei suoi abitanti.
Alla fine del massacro sorge il sole soffocato dai fumi del campo indiano, distrutto e bruciato dai soldati. Il bambino tira una freccia in cielo per aprire un varco, per far respirare quel cielo troppo denso e non fare soffocare il sole. Tira un’altra freccia al vento per farlo sanguinare, per vedere il sole rosso come il sangue. La terza freccia non l’ha mai tirata, riposa con lui e gli altri bambini sul fondo del fiume.
Nessun cantautore italiano ha saputo cantare così civilmente l’odio per l’inciviltà. Faber scrive canzoni per formare una coscienza a riguardo, canzoni che sono «una piccola goccia dove servirebbero secchi d’acqua».
Storie di guerre passate, forse dimenticate, ma sempre attuali, purtroppo. Di nuovo il mondo, e l’Italia, hanno scelto la guerra, descritta come umanitaria e inevitabile. Necessaria, forse come la guerra di Piero o la strage di Sand Creek. Nessuna guerra può essere umanitaria, perché è distruzione di pezzi di umanità.
“La guerra umanitaria” è la più disgustosa menzogna per giustificare la guerra. Nessuna guerra è inevitabile, è tale solo quando non si è fatto nulla per prevenirla. Nessuna guerra è necessaria. La guerra è sempre una scelta, non una necessità.
Mi stavo giusto chiudendo quando uscirà Volume 2, l’arrangiamento dell’orchestra di Londra..
E’ un bel “filone” quello degli indiani scelto da Faber; penso a Coda di lupo (egli stesso) e alla figura metaforica scelta per indicare gli operai negli anni delle rivendicazioni sindacali in Italiani (“gli indiani tute blu”).
(Patrick)