Giornalisti al fronte: morti per raccontare


«Quando scoppia una guerra, la prima vittima è la verità». Ma sui campi di battaglia a perdere la vita sono spesso anche coloro che, per passione prima ancora che per mestiere, la verità la cercano, la portano a galla, la difendono, la diffondono. E accade oggi come e più di quanto accadeva quando Hiram Johnson pronunciò quella frase col tempo divenuta proverbiale, nel lontano 1917, commentando l’entrata degli Stati Uniti nel primo conflitto mondiale.

Sono più di 1.500 i giornalisti uccisi nelle zone “calde” del pianeta negli ultimi vent’anni, oltre 50 soltanto nel 2011. I loro nomi sono tutti incisi sui pannelli di vetro del Journalist Memorial, monumento custodito al Newseum di Washington. Un riconoscimento a chi sceglie di intraprendere un mestiere, quello dell’inviato di guerra, che affonda le proprie radici nel 1854, quando William Howard Russell veniva mandato dal Times di Londra a seguire le vicende della Guerra di Crimea, pagando con l’espulsione dal campo di battaglia l’aver descritto l’incompetenza e la corruzione dei generali britannici.

Ma molti altri, dopo Russell, hanno pagato un prezzo ben più alto per avere svolto fino in fondo il proprio lavoro. A ucciderli, a volte, il caso: una bomba, una sparatoria, l’essersi trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato. Sempre più spesso, però, i giornalisti diventano bersagli, testimoni scomodi da eliminare.

È stato così per Enzo Baldoni, freelance giustiziato in Iraq da un gruppo di guerriglieri nell’agosto del 2004. Catturato sulla strada che da Najaf conduce a Baghdad, Baldoni prima di essere ucciso fu tenuto in ostaggio dai propri rapitori per alcuni giorni, durante i quali fece il giro del mondo il video con un suo «appello quasi smaliziato», come lo ricorda l’inviato del Tg1 Pino Scaccia – quel giorno a Najaf insieme a lui – in uno speciale andato in onda su Rai Uno lo scorso 19 giugno. «L’ultima volta da vivo di un cronista che voleva, come tutti i cronisti di razza, conoscere il mondo e raccontarlo».

Torniamo indietro di tre anni, al 19 novembre 2001. Teatro di un agguato dalle conseguenze drammatiche è ancora una volta una strada, quella che in Afghanistan porta dal confine col Pakistan a Kabul. A morire sono in quattro. C’è l’inviato del quotidiano spagnolo El Mundo Julio Fuentes, ci sono l’australiano Harry Burton e il fotografo afghano Azizullah Haidari, dell’agenzia Reuters. E insieme a loro c’è una giornalista del Corriere della Sera, Maria Grazia Cutuli. L’ultimo viaggio per lei, dopo quelli in Somalia, Cambogia, Bosnia, Liberia, Congo, Mozambico, Ruanda. Scriveva su Epoca il 13 dicembre 1996, in un articolo citato nel documentario È lì che bisogna essere. Per testimoniare: «Volevo andare più a fondo, superare la schizofrenia del cronista che rimane spettatore di tragedie che non gli appartengono».

Nelle parole di Maria Grazia Cutuli ci sono il coraggio e la determinazione che ritroviamo in un’altra donna simbolo di un giornalismo “scomodo”. È Ilaria Alpi, inviata del Tg3 assassinata in Somalia insieme all’operatore Miran Hrovatin, in circostanze ancora avvolte dal mistero, a distanza di 17 anni da quel tragico 20 marzo 1994. All’epoca Ilaria Alpi stava indagando su un traffico di rifiuti pericolosi e armi tra Paesi industrializzati e Corno d’Africa, dilaniato da caotiche guerriglie: quali connessioni queste ricerche possano aver avuto con la morte della giornalista non è mai stato appurato in sede giudiziaria.

Un nulla di fatto di fronte a cui l’Associazione Ilaria Alpi – Comunità aperta di Riccione ha reagito dando vita, nel 2001, al sito www.ilariaalpi.it, con la volontà di tenere viva la memoria della giornalista e difendere, più in generale, la libertà di stampa e di informazione, principi che dal 1995 animano il Premio Giornalistico Televisivo Ilaria Alpi organizzato dall’Associazione stessa. Obbiettivi, rinnovati di anno in anno, “riconoscere e accreditare l’impegno per l’inchiesta televisiva sui temi della pace e della solidarietà”, “arrivare a capire, di più e meglio, la complessità degli eventi e dei mondi che ci circondano”, “sostenere la necessità di una informazione intelligente, capace di guardare in profondità e riflettere sugli eventi, anziché sull’audience”. E cercare, più di tutto, di “svelare e raccontare sempre ogni possibile verità”.

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