Una guerra dimenticata dietro l’altra Italia
Esistono guerre dimenticate. Guerre in cui i vinti non perdono solo stessi o le idee per cui hanno combattuto ma perfino la dignità di essere esistiti in quanto soggetti di un conflitto. A volte ci si rende conto che questo tipo di guerre non si consumano solo lontano da noi, in qualche esotica e primitiva località dell’Africa dove le telecamere della nostra realtà non si sono mai accese, ma anche nella nostra memoria collettiva.
La guerra di cui sto parlando è stata una drammatica appendice del processo di unità nazionale, quel Risorgimento della nostra Italia, “una d’armi, di lingua e d’altare”, per citare Manzoni. Gli attori da una parte furono i protagonisti del tricolore, Cavour, Garibaldi, generali, militari sabaudi e statisti dell’Italia unita, dall’altra uomini senza volto e bandiera, coloro che per la storia furono semplicemente briganti.
Siamo nel 1860, le forze congiunte dell’esercito sabaudo da nord e di quello garibaldino da sud sconfiggono definitivamente sul Volturno le armate borboniche. Siamo in autunno, proprio mentre la popolazione meridionale vota i plebisciti che certificheranno l’annessione del mezzogiorno al nuovo regno d’Italia, numerose bande armate in Campania settentrionale, Basilicata, Abruzzo e Molise iniziano ad occupare villaggi e spesso anche centri abitati di medie dimensioni, sollevando la popolazione contro le autorità Italiane e i fautori dell’unità locali. Ci si trova dinnanzi a veri e propri tentativi di restaurazione della dinastia borbonica. La repressione da parte del neonato stato italiano è durissima. Ben presto i nostalgici del regno delle due Sicilie adottano la strategia della guerriglia, forti di una imprevedibile solidarietà popolare. Lo stato Italiano riuscirà a risolvere la situazione solo dopo 5 anni di sangue e di eccidi casa per casa. Nel 1863 saranno impegnati nel mezzogiorno 105.209 soldati, i due quinti dell’intero esercito italiano, verranno sospese le garanzie costituzionali per ben due volte, con lo stato d’assedio proclamato nel 62 e con la successiva legge speciale per il mezzogiorno detta legge Pica. Una moderna stima della vittime elaborata incrociando i dati ufficiali ad altri elementi oggettivi ci riporta cifre impietose, che si aggirano tra un minimo di 20.075 e un massimo di 73.875 vittime.
Questo è ciò che si decise di cancellare dalla memoria di una nazione attraverso l’etichetta di brigantaggio. Quest’operazione doveva risultare una scelta pressoché obbligata per l’establishment post-risorgimentale, che non poteva certo raccontare all’opinione pubblica italiana e internazionale di un’ unità che gran parte della popolazione rurale del mezzogiorno continentale non voleva e che veniva quotidianamente imposta in punta di baionetta. Il deficit di consenso dell’opzione politica unitaria in meridione doveva essere un vero shock per la classe dirigente e per gli ufficiali di un esercito formatosi nel mito dell’Italia unita. La questione fu quella di elaborare e spiegare un fenomeno di violenza che era troppo problematico interpretare come politico e che quindi risultava incomprensibile.
Fu in questo contesto che si sviluppò un modello di comprensione del brigantaggio basato sul primitivismo e sulla barbara esoticità del mondo meridionale. La violenza dei cosiddetti briganti non era altro che la recrudescenza dal carattere ancestrale insito nel meridione che cercava disperatamente di opporsi all’avanzata della modernità incarnatasi nell’Italia unita. Fu nei giornali, nei carteggi o nei racconti di parte italiana, di chi aveva vissuto quell’ inspiegabile violenza che il meridione divenne una terra di pellerossa, di barbari primitivi, di africani. A poco valse il fatto che il lealismo meridionale nei confronti dei Borboni non avesse la forza politica di alimentare una memoria divisa rispetto a quella collettiva italiana e che quindi il sentimento anti-italiano non sopravvivesse alla sconfitta di coloro i quali furono detti briganti.
Le vicende di questa guerra dimenticata ci lasciarono in eredità un Mezzogiorno che agli occhi di tutto il resto d’Italia era già divenuto l’altro. Un stato che iniziava la sua esperienza amministrativa in meridione, delegittimato da un gap di consensi tale da alimentare un conflitto della portata che abbiamo presentato. Un altro elemento caratterizzante dei problemi dell’Italia meridionale delineatosi, quindi, in questo contesto.
Dunque è semplice renderci conto di quanto costerà all’Italia questa guerra dimenticata, dalla quale non si può che ripartire per comprendere, finalmente, i tanti problemi politici ed identitari che affliggono il nostro essere Italiani.
Leggendo questo articolo mi sorge spontanea una domanda, che magari è una cavolata pazzesca, ma io da ignorante chiedo: legami tra questo cosiddetto “brigantaggio” post-unitario, in realtà resistenza borbonica, e il fenomeno mafioso?
Il punto sta nell’interpretazione del fenomeno mafioso. Se si interpretano queste assiciazioni criminali non tanto come concorrenti del potere statuale ma come agenti extra-legali di cui lo stato ha avuto bisogno per rapportarsi al territorio, allora sicuramente la vicenda del brigantaggio può essere collegata al fenomeno mafioso in quanto è una delle cause della debolezza e della crisi di legittimità dello stato in meridione che in un certo senso rende necessaria sul territorio la mediazione delle mafie. Però sicuramente non c’è una continuità nel segno della dissidenza tra briganti e mafiosi. Spero di essere stato esaustivo, se vuoi approfondire un’interpretazione di questo tipo del fenomeno mafioso, che a mio avviso è molto acuta, ti consiglio un libro di uno storico inglese, J. Dickie, Cosa nostra, storia della mafia siciliana