La notte in cui l’astronave di Adz atterrò a Ferrara (Sufjan Stevens in concerto)


È buio pesto, e nello spazio interplanetario si intravede una piccola luce. È un astronave. In 800 siamo invitati a entrarci. Questa notte si fa un viaggio spaziale.

L’equipaggio è numeroso e preparato. La cosmonave è superaccessoriata.
Il comandante si chiama Sufjan Stevens, e viene dal Michigan.

Ultima raccomandazione prima di partire: non allacciate le cinture.

Il primo pianeta che incontriamo è quello dei cigni. Le loro immense ali sono tanto delicate che una luce troppo intensa potrebbe spezzarle. Forse è per questo che è così buio.
Seven Swans è il delicato regno del sogno, degli uomini alati. Di quello che non potremmo mai essere. Dietro la voce perfetta e fedele, si intravede già il carico scenografico eccessivo.

Qui purtroppo il capitano dimentica il banjo, e non tornerà più a recuperarlo.

Prosegue l’itinerario e si cambia completamente registro. Emerge la prorompente fluorescenza dei nove membri dell’ equipaggio. Gli adesivi fosforescenti e gli abiti di scena multicolor sembrano uniformi spaziali. Il pop cosmico dà una luce del tutto diversa alla notte.

E così è Too Much. È troppo.
Colori, danze, scenografie, psichedelia e videoproiezioni sovrapposte. Lo spettacolo coinvolge mente, cuore, immaginazione, ricordi, fascino, sensi ma rischia di inibire quello più importante. Mentre realizzo che devo rinunciare a qualcosa, si giunge a un piccolo sistema di pianeti, analogo al sistema solare.
Sembra l’Isola Che Non C’è. Almeno, così la chiamano gli scienziati. Ma a sentire Royal Robertson esiste veramente, e la si può raggiungere con un’ astronave guidata da un dio. Per qualcuno Royal è un profeta, per i più è uno schizofrenico. Ma siccome ciò che stiamo vivendo sembra riproporre la sua visione, elimino un po’ di pregiudizi.

Nell’Isola Che Non C’è un pianeta è più riconoscibile di altri.
È Age of Adz. È la canzone d’amore per l’Apocalisse. Ed è di un’immensità fuori dall’ordinario.

Il capitano è una persona deliziosa. Introduce ogni corpo celeste con spiegazioni così dettagliate e appassionate che pare abbia creato lui stesso tutto questo.
«Un’astronave guidata da un dio».
Qualsiasi residuo di dubbio sparisce: quel pazzo di Royal Robertson aveva ragione.

Il capitano è ben disposto.  A cuore aperto condivide le più svariate riflessioni sulla vita. L’inizio e la fine, e l’importanza sostanziale di tutto ciò che sta nel mezzo. L’equilibrio tra forze opposte che si compensano. Il mezzo del cammin di nostra vita, raccontato nella personalissima Now That I’m Older, che dal vivo suona davvero semplice, essenziale.

Poi la musica folk.
Quando introduce la visita a questo tipo di pianeti si avvicina di più a noi passeggeri. Come se cercasse una condivisione piena.
Con Heirloom succede. Anche con Enchanting Ghost. E tutte le persone estasiate pendono dalle sue labbra.

Continuano le considerazioni esistenziali. Ora si parla di sensualità, di danza. Sentire il ritmo dentro e lasciarsi trasportare dai palpiti, quasi a voler riproporre un’esperienza primordiale.
I Walked è un pianeta straordinario, con un’ atmosfera molto densa. È inquinato solo dalle coreografie preparate. Torno a pensare sia troppo. Sentire il ritmo e muoversi spontaneamente a tempo non corrisponde all’esecuzione di passi provati e consolidati.
Questo tipo di contaminazione è abbastanza diffuso quassù, nello spazio.

Dopo il colorato Get Real Get Right, il capitano intraprende una seria battaglia contro il dio del fuoco Vesuvius. Un nume molto potente, re di un pianeta a dir poco impervio.
Lo scontro è davvero suggestivo, e contro ogni aspettativa il capitano ne esce totalmente vincitore.
Ho temuto scivolasse. Pensavo che non riuscisse a rendere quella complessità vocale senza cadere. E invece no.

Dopo questo dispendio di energie, il pianeta rigeneratore si chiama I Want To Be Well. L’effetto titanico continua.

Degli astri gravitanti in questo sistema, Futile Devices è il più malinconico.

Il viaggio nelle tenebre interstellari si sta rivelando illuminante. L’architettura di The Age of Adz così complessa, chimica, sintetica e apparentemente difficile da riprodurre viene proposta in maniera quasi eccelsa.

Tutti i membri dell’equipaggio si destreggiano tra apparecchiature e comandi, in modo professionale ma non sempre disinvolto.
Il capitano cade almeno due volte con la voce. Ma non è grave.
Ha davanti a sé un synth, una consolle per gli effetti vocali utili per mascherare la sua bellissima voce e 6 o 7 pedali. Con la concentrazione necessaria, sa sempre mettere il piede sul pedale giusto, girare la manopola corretta, e intanto cantare e suonare, mentre altre 9 persone dietro di lui fanno lo stesso. È proprio una fortuna che abbiano già fatto tanti viaggi di questo tipo, con altri passeggeri. Sono la sicurezza e la solidità a suggerirlo.

Un immenso lavoro sul palco, dietro le quinte, al mixer in fondo al teatro.
È tutto questo che rende possibile esplorare il fantastico mondo di The Age of Adz.

“Futile Devices” è l’ultimo pianeta. Perché poi si torna al punto di partenza, senza soste né tappe intermedie. Il capitano questa volta non dice nulla. Guida la navicella come solo lui sa fare, e basta.
Serve solo una manciata di secondi per capire che stiamo tornando indietro. Impossibile Soul.

Il ritorno è diverso. Sembra non ripetersi alcuna esperienza già vissuta questa notte. O al contrario è un grande insieme di tutto quello che abbiamo già visto. Ma così concentrato fa tutt’altro effetto.
Devastante.

I corpi celesti e i corpi umani sono finalmente liberi di muoversi a loro piacimento. Siccome l’esplorazione si sta concludendo, bisogna festeggiare insieme. Così il capitano ci invita a ballare. L’ho sempre visto serio e attento durante il viaggio. Pronto a guidare l’equipaggio, a dare indicazioni. Un vero punto di riferimento. Un maestro con la sua orchestra.
Ora sembra un bambino a una festa di carnevale. Tra travestimenti, coriandoli, stelle filanti, colori.

Questa punta di infantilismo mi fa balzare alla mente quel grande uomo e musicista che aveva la pazza idea di scrivere un album per ogni stato degli USA. Il progetto tramontò dopo qualche memorabile tentativo. Ma le cose che ho sempre apprezzato e continuo a gradire sono queste ambizioni e il grande coraggio di renderle note benché ai più possano sembrare ridicole. Per questo non merita altro che stima. Per questo è adorabile.

L’astronave atterra, si ferma. Non so di preciso dove siamo, ma probabilmente nella zona centro-orientale degli Stati Uniti.
Chissà come ci hanno visti da terra. Che abbiano segnalato avvistamenti di UFO? Forse, ma che importa. John Wayne Gacy, Jr con la sua lucentezza e carica emotiva mi fa capire che siamo nell’Illinois e che da qui non ci sposteremo fino alla fine. Che è molto vicina.

Ecco, più precisamente siamo a Chicago. La più grande città dell’Illinois, e fulcro di Illinoise.
Il tempo che passeremo qui sarà troppo poco. È il momento ideale per fare una cosa mai fatta durante tutto il viaggio: allacciare le cinture. Per tenersi ben stretti ai seggiolini e assicurarsi di non scendere mai dalla navicella.
Disturbato solo da belli quanto inutili palloni colorati volanti, l’intero teatro canta l’intera canzone. Nonostante si stia facendo un maturo punto della situazione sui numerosi errori del passato, stiamo tornando tutti bambini. Nessuno escluso.

Le luci si accendono, e spengono tutto.
Il rifiuto di tornare coi piedi per terra: come possiamo fare un altro giro sull’astronave, Capitan Sufjan? La risposta è nella mente. Perché tutte le cose crescono, ma non tutte passano.

Chiudere gli occhi.

Buonanotte.

2 Commenti

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  1. Serena

    Articolo bellissimo…
    Penso che sia una recensione stupenda diversa dalle solite e per questo molto originale.
    C’è una frase in particolare che mi ha colpita, ovvero: “‘Seven Swans è il delicato regno del sogno, degli uomini alati. Di quello che non potremmo mai essere.” So che facevi riferimento alla canzone, ma io ho contestualizzato questa osservazione, l’ho fatta mia. Quando io scrivo penso di averle davvero le ali. Penso che potrei volare ma, soprattutto, non ho paura dell’altitudine. Quando scrivo non ho paura di cadere. Per questo motivo penso che grazie alle parole noi siamo dotati di ali e quindi possiamo considerarci alate. Sicuramente è una riflessione personale, ma i sogni e le passioni che abbiamo ci fanno volare e ci regalano quelle ali che noi essere umani, purtroppo, non abbiamo.
    Leggendo questo articolo è come se al concerto di Sufjan Stevens avessi partecipato anche io.
    Sono salita sull’astronave e ho viaggiato attraverso le sue canzoni.
    Il finale poi mi ha colpita molto: “Le luci si accendono, e spengono tutto. Il rifiuto di tornare coi piedi per terra: come possiamo fare un altro giro sull’astronave, Capitan Sufjan? La risposta è nella mente. Perchè tutte le cose crescono, ma non tutte passano.” E’ vero: quando la luce si accende spegne tutto, perchè il giorno ricomincia con i suoi orari e le sue regole.
    I colori della notte invece li decidiamo noi o, come nel tuo caso, li decide il Capitano Sufjan Stevens.
    Le mie riflessioni sono state sicuramente personali, ma ci tenevo a farti i miei complimenti per l’articolo. Hai rappresentato benissimo la notte attraverso la musica!

  2. Ilaria Virgili

    GRAZIE Serena.
    La riflessione che hai voluto condividere sulla scrittura che ci mette le ali è molto personale e decisamente interessante. Ci hai proposto un vero e proprio mondo, e hai avuto coraggio nel farlo.

    Ti ringrazio nuovamente per i complimenti. Rimane un articolo a rischio ma mi fa piacere tu l’abbia apprezzato!

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