L’Italia che può esserci ancora


Certamente, non per tutti i cittadini italiani il 17 marzo è stata una ricorrenza sentita. Nulla di eccezionale in un mondo in cui all’incedere della globalizzazione si assiste allo sgretolamento di tutte quelle differenze di costume, cultura e stili di vita che soltanto 150 anni fa permettevano ai nostri trisavoli di parlare di “noi” e degli “altri”.

Ci stupiamo ancor meno della sobrietà del centocinquantenario e della mancanza di folle oceaniche di fronte al Vittoriale. Basti pensare al progressivo ma costante svuotamento delle prerogative di sovranità dei vecchi stati-nazione a favore delle più efficienti, in un mondo divenuto ormai troppo grande, strutture sovranazionali.

Invece disorienta, sebbene non stupisca perché ampiamente annunciato, vedere parte del paese sentire questa ricorrenza come l’atto finale di una nazione a cui non vuole più appartenere. È questa la parafrasi del secessionismo padano.

Si potrebbero scrivere quintali di pagine analizzando la sfida federalista della Lega Nord ma non è un problema politico che in questa sede è utile porci. Definire che valore può avere oggi la nostra italianità, questa è la vera sfida. In altre parole: cosa può significare oggi essere parte di una comunità nazionale post-identitaria?

In un mondo dove tutto è uniformato nel villaggio e le vere uniche comunità in cui ci si può identificare sono quelle locali, quelle di chi vive la propria vita gomito a gomito con noi, c’è ancora posto per la nostra sgangherata Italia.

Certo l’opzione secessionista si basa su un concetto di etnia sempre più stringente: come dire, quando le grandi differenze vengono a meno si cercano minimi comuni denominatori sempre più locali per costituire un’identità sentita.

Premesso questo, il processo di costruzione di una nazione non è tanto dissimile da quello di tutte le identità. Presentare un’identità nuova come qualcosa di ancestrale che torna alla luce (come il richiamo a origini celtiche o episodi storici interpretati in maniera quanto meno discutibile come il conflitto medievale fra i comuni lombardi e il Barbarossa), creare ex-novo spazi pubblici che diano voce alla vita della nuova comunità in costituzione, sono processi che si sono verificati anche 150 anni fa, sebbene il soggetto fosse l’Italia e non la Padania.

Ma siamo proprio sicuri che cercare ogni 150 anni un’identità etnica più ristretta ed esclusiva su cui fondare la nostra comunità nazionale risolva la questione? Essere padani o italiani può dipendere veramente da un’identità etnica-culturale ridotta a un caleidoscopio di folklori locali che, allo stato delle cose, trasformerebbero la stessa Padania in una Babele di tradizioni emiliane, lombarde, venete e piemontesi?

Forse oggi è un altro concetto di nazione che dobbiamo rincorrere.

Riscoprire cosa significhi essere Italiani passa necessariamente dal guardarsi indietro e dal renderci conto di quanti passi abbiamo percorso insieme, di come la nostra storia ci abbia portato dalla miseria al miracolo economico, dall’essere sudditi di piccoli staterelli a cittadini di una delle grandi nazioni che hanno fondato il grande progetto europeo, di quante volte siamo caduti e poi abbiamo ricostruito questo paese che sicuramente è divenuto nostro.

Ma, d’altra parte, questo non basta. Se ci limitassimo a guardare a Ieri, il problema sollevato in Padania non troverebbe risposta. L’Italia resterebbe una grande avventura, la risposta alla modernità dei nostri antenati del novecento.

Oggi noi non possiamo fornire le stesse risposte dei padri della nazione risorgimentale. Abbiamo bisogno di un’Italia nuova. Possiamo continuare il nostro viaggio insieme solo se ripensiamo alla nostra identità non più nel sangue e nella terra dell’ethos ma nell’adesione a un’esistenza regolata da valori pubblici, norme, diritti e doveri nei quali identificarci e divenire una comunità. Dunque attribuire significati, per noi, fino ad oggi nuovi ai termini Costituzione e Cittadinanza.

Accettare la sfida di costruire una società in cui la democrazia dovrà trovare remunerazione non soltanto nei termini di un diritto alla libertà privata e alla partecipazione politica ma anche in termini di un godimento profano di diritti alla ripartizione sociale e culturale. Se i cittadini potranno sperimentare il valore d’uso dei loro diritti, anche nella forma della sicurezza sociale e del riconoscimento reciproco di forme di vita culturali diverse, allora la cittadinanza democratica sarà in grado di sviluppare forze di riaggregazione nella comunità nazionale, confermandosi come meccanismo realizzante effettivamente i presupposti materiali delle forme di vita desiderate. (j.habermas, l’inclusione dell’altro)

Siamo tanto lontani da tutto ciò? Abbiamo la fortuna di vivere in un mondo in cui le cose accadono sempre prima di essere raccontate.

Renan ridefiniva il concetto di nazione come un plebiscito di tutti i giorni.

Oggi guardandoci intorno, seppur nel nostro malandato paese, vedremo ancora forme di solidarietà che non sono né un diritto né un dovere, vedremo imprenditori fare i salti mortali per non mandare in cassa integrazione i propri dipendenti, vedremo un’Italia che continua a pagare le tasse anche se sono troppe, vedremo una foto di Falcone e Borsellino sorridenti o un film di Alberto Sordi o Totò…

Questi sono i nostri plebisciti quotidiani, i plebisciti di una nazione che in silenzio e a denti stretti, ogni giorno, continua a dirci che vuole esserci ancora.

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