Quando all’università 3+2=7


Prima erano quattro oppure cinque. Talvolta i quattro diventavano cinque e i cinque si trasformavano in sei. Dal 1999, dopo le firme al Processo di Bologna, sono diventati tre più due. I tre, in casa nostra, spesso maturano a quattro e i due evolvono in tre. A conti fatti siamo a sette.

Sette anni sudati tra banchi, colleghi e libri universitari. Poi? Pezzo di carta in mano costato altri 65 euro da versare, entro data prefissata, presso un qualsiasi sportello Unicredit (se studi a Bologna). Invio di curricula tramite mail e consegna diretta, almeno c’è la certezza che qualcuno l’abbia in mano. Eppure…eppure l’attesa è vana, i giorni passano e: «Perché nessuno risponde?». Ore davanti al computer, casella di posta aperta e dito indice che digita nervosamente “invio” sognando “un nuovo messaggio”. Cellulare accanto al computer. Silenzio vuoto che si perpetua da giorni rotto solo nelle discussioni al tavolo della cena:

«Anni sprecati, fatica vana, si stava meglio quando si stava peggio, il 3+2 è inutile: dopo tre anni è come avere il diploma, dopo cinque è arrivata la crisi».

Il punto è uno: il 3+2 è stato adottato in molti stati europei. Tutta Europa è attraversata dalla crisi, ma perché da noi sembra che sotto il fondo se ne nasconda un secondo, un terzo e un quarto?

In risposta c’è Umberto Eco con Allarme Università. Riflessioni sparse su presente e futuro. Nel numero di ottobre di Alfabeta2. Tre pagine A3, in Times New Roman, 10 punti (a occhio e croce) in cui snocciola il suo perché e percome della crisi del nostro sistema d’istruzione universitario. Tra fughe di cervelli, dinastie parentali (vere o presunte) e riforme, in due fitte colonne disquisisce sul sistema 3+2 e di come, nel pensarlo, «[…] si è presupposto di avere a che fare con adolescenti sottosviluppati?».

La questione non riguarda, a detta di Eco, se sia possibile o meno formare non solo studenti, ma anche persone e giovani professionisti in tre anni. La questione è come questi tre anni vengano organizzati in prospettiva dell’idea di ragazzi che i riformatori hanno in mente.

Il più grande errore consiste nel sostituire la quantità alla qualità. Ciò accade con un’interpretazione «[…]restrittiva e fiscale […]» dei crediti formativi. Crediti equipollenti a presunte ore di studio o numero di pagine dovrebbero essere sostituti da crediti ottenuti in virtù del risultato o del numero d’esami sostenuti, riuscendo così ad attenersi all’uso europeo. È ridicolo che a uno studente gli «si diminuisca il peso del lavoro, perché deve imparare a faticare». Ma se poi «non si laureano in tempo si deve anche ritenere che, tranne ovviamente eccezioni folgoranti, arrivino già sottosviluppati dalla media superiore, come risulta dai test che denunciano ignoranze abissali – e quindi bisognerebbe mettere in discussione anche quanto avviene prima dei diciotto anni». Questo rafforza la mia posizione dato che qualche mese fa scrivevo qui «[…] io, in primis, mi sento il prodotto di un intero sistema scolastico sbagliato. Un sistema che vede i singoli gradi formativi come blocchi non comunicanti. La scuola media superiore considera l’orientamento come una due-giorni in cui lasciare gli studenti girovagare come cani sciolti tra i padiglioni di presentazione dei corsi di laurea nelle fiere. Non basta. Lo studente deve essere seguito, deve essere guidato in un percorso che, senza esagerare troppo, deve iniziare dal terzo anno delle superiori. I docenti devono individuare i talenti di ognuno e fare di tutto perché li mettano a frutto optando per il  percorso universitario che meglio li rappresenta[…]».

Infine, l’ultima grande anomalia evidenziata da Eco, che ridicolizza il 3+2, è «la storia grottesca del “dottore”». In Italia si diventa dottori per ben tre volte: dottore, dottore magistrale e dottore di ricerca. Fuori è dottore solo chi arriva al grado massimo d’istruzione, prima c’è solo Mister o Monsieur. Quindi «Come faranno all’estero a prendere sul serio i nostri ragazzi anche se arriveranno con le tasche piene di stupidi crediti?»

E allora se vogliamo che la nebbia sul nostro futuro si diradi, è necessario ripartire là dove il nostro futuro si decide: l’università, perché sempre con Eco «Uno Stato che non decide di finanziare adeguatamente ricerca ed educazione è destinato non solo a perdere cervelli, che sarebbe il meno, ma a tenersi a casa cervelli bacati».

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