Stefano Giogli: un fotografo per ripensare i giovani
«Giovane ha ucciso il padre con 50 coltellate”. “Ragazzo disoccupato muore a causa di un cocktail di droghe e alcool». «Baby-bulli infrangono a manganellate le vetrine di due negozi in centro di città».
«Ma cos’hanno questi giovani nella testa? Ci deve essere qualcosa che non va a questo mondo!». Tristi parole di disappunto che, con insofferenza, mio padre ha pronunciato dopo questa rassegna di notizie al tg.
Sono una ragazza con idee ben chiare. Decisa. Di solito, dopo una frase di questo tipo, avrei snocciolato una sequela interminabile di argomentazioni sulla distorsione della percezione della realtà che la comunicazione televisiva ha indotto in lui. Avrei fatto appello a tutte quelle teorie sugli effetti dei media che gli ultimi tre anni di studi di comunicazione mi hanno insegnato. Le avrei tradotte in esempi e mi sarei tuffata in un’apologia dei giovani, come fossi di fronte a corte marziale.
Non ho detto nulla. Sono bastati pochi secondi, perché il rimorso del silenzio non solo si insinuasse, ma mi travolgesse inondadomi la mente di un senso di colpa estenuante. Sono giovane, non più adolescente, ma poco lontana da quegli anni. Ricordo la mia classe del liceo. Eravamo ventisette ragazzi assetati del reale, straboccanti di domande. Non rispondevamo a quell’etichetta di svogliati, incapaci, disinteressati, apatici che imperversa nelle menti adulte. Nonostante ciò nessuno ci chiedeva nulla. Nessuno era disposto a metterci alla prova.
Che non sia questo il problema? Paura di trovare qualche mente pensante? Pervasa d’amarezza, sfoglio pagine di giornale, ascolto telegiornali eppure la storia è sempre la stessa: gli adolescenti sono trasformati in macchiette piatte, insipide, senza voce e testa. E la cosa che mi fa più paura è che, col tempo, possano essere loro stessi a credere e a conformarsi a questo ritratto, irreale, infelice e tristemente fuorviante.
Il mio silenzio ha deluso prima di tutti me stessa. Se noi per primi ci arrendiamo a non urlare i fatti allora quest’immagine si radicherà sempre più profondamente. Fortunatamente c’è chi, come me, è stanco di questi luoghi comuni e cerca con il suo lavoro, quello di fotografo, di restituire dignità e sostanza ai giovani, oggi privati della loro stessa essenza.
Questo professionista è Stefano Giogli, quarantacinquenne di Città di Castello, vincitore, nell’ultima edizione (la diciannovesima) del prestigioso SI Fest (Savignano Immagini Festival) dal tema “Abitare mondi”, del premio SI Fest Portfolio 2010 con un lavoro sull’adolescenza dal titolo “L’unico a essere diverso eri tu”.
“Per la freschezza e l’originalità con cui l’autore ha trattato il tema dell’adolescenza. Nella serialità del lavoro colpisce la capacità con cui Giogli ha raccontato la diversa personalità dei ragazzi rappresentati nei loro ambienti”. Questa è stata la motivazione che ha spinto la giuria a conferirgli il premio. D’accordo, d’accordissimo, ma queste parole non erano sufficienti. Volevo saperne di più. Come mai aveva realizzato un portfolio proprio sugli adolescenti? Cosa c’era dietro? Gliel’ho chiesto direttamente e la conclusione della sua risposta mi ha aperto il cuore: è il punto di partenza per iniziare a ricostruire qualcosa di importante.
«L’idea di affrontare con la fotografia l’argomento Teenager è nata quasi come sfida contro chi troppo spesso cavalca ingiustamente e gratuitamente, con mire sensazionaliste, fatti negativi che vedono coinvolti i giovani in genere.
Il lato subdolo della cosa peraltro è che, a paragone di numeri e percentuali minime dei suddetti, si vuole dare a intendere, grazie anche alla complicità dei mass media in genere, che la categoria dei giovani è inetta, violenta, apatica e massificata generalizzando e screditando in tal modo la vita nel suo farsi. Io, al contrario, credo sia la più vera forza per un positivo cambiamento intellettuale, culturale e morale del nostro mondo.
Pertanto ho pensato di entrare in contatto con loro attraverso una mediazione semplice, vicina ai loro tempi e che mi avrebbe permesso di entrare in connessione con una piccola parte di loro e della loro vita: la macchina fotografica.
Mancava soltanto di trovare il luogo, lo spazio giusto dove si sarebbero sentiti più a loro agio e che li avrebbe rappresentati.
La scelta è stata la loro camera da letto: un luogo non luogo, vissuto in toto da taluni, in minimo da altri, spazio sociale e intimo dove le mutazioni lasciano tracce e talvolta graffiti che permangono o si dissolvono sotto il trascorrere inesorabile del tempo.
Lì si possono intuire evoluzioni, trasformazioni e codici che mutano per età e status, una torre di babele che può far intendere personalità e attitudini differenti.
Qualche maschera scende o addirittura cade, il verbo cede al silenzio e l’io si manifesta incoraggiato da chi intende sentire e ascoltare chi ha sicuramente tanto da raccontare.
Questo credo sia il più recondito dei desideri che ognuno di loro ha: sapere che c’è chi è interessato ai loro pensieri, ai loro sogni e alle loro utopie.
E pure che pensa che queste generazioni siano all’altezza della vita più di chi le giudica».
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