La paura dell’appartenenza


Qualche giorno fa, incontrando un vecchio amico, mi sono trovato attore in una di quelle discussioni un po’ noiose (o forse fondamentali?) sul declino della politica e delle istituzioni italiane. Non lo vedevo dai tempi del liceo e ignaro del suo orientamento, cercavo di circoscrivere le mie affermazioni in un limbo di neutralità innocua, poco credibile anche a me stesso. Ho passato qualche minuto compiendo questo  faticoso esercizio mentale, mentre i luoghi comuni che snocciolava mi scivolavano addosso. Non ricordo esattamente, forse gli ho chiesto se alla fine si fosse iscritto al Partito Democratico, ma ho in mente, nitida, la sua risposta: «Io iscrivermi a un partito? Farò l’architetto, mica voglio rovinarmi la clientela». Mi sono affrettato a salutarlo, con amarezza.

Riflettendo con calma su questa frase ho capito che essa rappresenta qualcosa di più di una semplicistica visione personale o della mera superficialità di chi non affronta sufficientemente la complessità della gestione di una collettività, in questo caso dello Stato. Essa esprime precisamente la tendenza, ormai diffusa, a considerare gli organi rappresentativi come porzioni irreversibilmente malate di un corpo in decomposizione che non può più tornare alla vita.

Il problema è che tale tendenza non tiene conto del fatto che i partiti politici sono, oggi, l’unico strumento di connessione fra le persone e le istituzioni.

Ma cosa accade quando questo strumento, agli occhi di chi dovrebbe utilizzarlo, diventa complicato, difficile da maneggiare, addirittura odioso, fonte di perdita di tempo e di danno, invece che di libertà di espressione e di rappresentanza?

Succede che le persone, in particolare i giovani, non lo utilizzano più. Ma se i giovani, per pigrizia, disinteresse, ripugnanza nei confronti dei politici “spreconi”, rinunciano a determinare le scelte che regolano la loro stessa convivenza, lasciano campo libero a chi queste scelte le prende già da anni e che certo non si lamenta di poterlo fare indisturbato.

Al giovane interessato, che si iscrive a un partito, non spetta peraltro destino migliore (bhè ovviamente mi riferisco a un partito che possa definirsi tale, non a una faccia famosa senza una base che discute).

Questa inconsueta categoria di giovane (non per colpa sua!) incontrerà infatti enormi ostacoli al suo iniziale fervore propositivo. Purtroppo apprenderà presto che anche per sedersi sulle più insignificanti poltrone, si scatena una lotta furibonda fatta di violenza verbale, di tatticismi e dinamiche oscure degne della più torbida prima Repubblica e che a tutti interessa molto il potere e troppo poco la comunicazione con la cittadinanza e gli elettori.

Il secondo concetto che il giovane dovrà mettersi bene in testa e che per fortuna, di solito, fatica a imparare è che un candidato non è quasi mai scelto in base alle sue capacità personali, politiche e specifiche in un settore, ma per la sua appartenenza a una “corrente” (guai a pronunciare questa parola!).

Questo criterio, certo, ha una ragione fondante logica e storica, ma non deve essere, oggi, eletto a unico parametro per scegliere chi ci rappresenta o chi ricopre ruoli perché così facendo la politica si incarcera in se stessa e si allontana dalla convinzione e dalla speranza che i giovani hanno di veder premiati l’impegno, la correttezza, l’onestà e soprattutto la coerenza, di chi gareggia per rappresentarli proclamandosi capace di regolare, attraverso le sue scelte, la vita degli altri.

Capisco che molti “politici” e militanti che hanno consacrato la propria appartenenza a uno dei blocchi partitici della prima repubblica abbiano un certo gusto per l’”oscuro”, per il non detto, per l’implicito, per quello che tutti sanno e che nessuno dice pubblicamente, per il mito dello “stratega politico” elevato a figura risolutiva delle controversie e grande mediatore. Ma se non vogliamo ritrovarci senza nuova classe dirigente, o peggio, in una vergognosa crescita dell’astensionimo o del fiorire di movimenti “ipersemplificativi e distruttivi”, dobbiamo renderci conto che le nuove generazioni vogliono altro: desiderano trasparenza, chiarezza, capacità di emozionare avendo il coraggio di portare avanti istanze importanti anche a costo di perdere privilegi, dicono no tanto ai freddi burocrati quanto agli arrivisti e ai mascalzoni.

La pericolosa reazione che abbiamo nei confronti di questa “palude” di interessi personali, è quella di allontanarci dai giochi, di non voler sporcarci le mani, di tendere a ipersemplificare, con slogan dettati da un’informazione frettolosa, i cicli complessi della società.

O forse c’è qualcosa di più profondo, una perdita del significato della stessa parola “appartenenza”, che non è più vista come adesione a un’ ideologia, o come, perché no, presa di distanza dalla parte avversa, o come contributo a plasmare la società in base alle proprie idee, quanto piuttosto come una pericolosa “etichetta” indelebile, che può compromettere il proprio ruolo nel mercato, sia esso del lavoro o quello, forse ancor più degenere, dell’immagine.

Accanto al fastidio e all’insofferenza che i giovani provano nei confronti dell’appartenenza, esiste anche una pericolosa tendenza (o forse caratteristica intrinseca), dei partiti, a restringere e circoscrivere decisioni e discussioni in assemblee elitarie, composte da “quelli che contano”, quasi anch’essi temessero l’estensione di una “appartenenza attiva” che potrebbe modificare i propri routinari equilibri.

Questo enorme intreccio di arrivismo, che beninteso, nei sui nodi trova (ovviamente!) anche personaggi giusti che arrivisti non sono, non si sbroglia criticandolo dall’esterno, ma partecipando alla sua evoluzione. Ecco perché noi giovani non dobbiamo farci intimidire dai giochi di potere, ma tentare di scardinarli partecipando alla vita politica e trasmettendo ai partiti l’entusiasmo e l’altruismo che solo le nuove generazioni possono portare con se. Se i politici vogliono tornare a coinvolgere gli elettori devono sì essere portatori di contenuti concreti, ma anche sapere emozionare riuscendo ad emozionarsi, riportando la politica ai valori primi che fondano la convivenza. Devono mettersi in gioco dimostrando che non sono solo pedine inanimate e tragicamente immobili nella scacchiera del potere.

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