
Figlie del mare, di Mary Lynn Bracht – Storia delle comfort women tra Corea e Giappone
Ci sono angoli bui di storia ancora poco conosciuti dal grande pubblico. Il tema trattato da Figlie del mare di Mary Lynn Bracht è al tempo stesso doloroso e attuale, una ferita mai rimarginata. Questo romanzo ci parla infatti delle comfort women, le “donne di conforto”.
Ovvero ragazze, donne, bambine strappate alla propria famiglia durante la dominazione giapponese in Corea e costrette a diventare vere e proprie schiave sessuali.
Le straordinarie pescatrici coreane di Figlie del mare

La copertina di Figlie del mare, il romanzo di Mary Lynn Bracht sulle comfort women (Credits: Tea)
L’autrice ci porta indietro nel tempo, nel 1943, sull’isola di Jeju, nel Mar di Corea. Qui una piccola comunità di haenyeo (ovvero cercatrici di conchiglie) cerca di sopravvivere alla brutale occupazione giapponese. Donne fiere e indipendenti, abituate a stare per ore nelle acqua gelide del mare, immergendosi a lungo per mantenere le proprie famiglie. Hana ed Emi fanno parte di questa antica tradizione: Hana è già quasi una donna e con la madre lavora duramente tra i flutti. Emi, ancora troppo piccola, le attende sulla spiaggia e allontana gli avidi gabbiani dal pescato della giornata.
La vita scorre pacifica finché un giorno Hana, per salvare la sorellina, si lascia portare via da un ufficiale giapponese. Inizia così il suo doloroso calvario, dalla brutale perdita dell’innocenza ai ripetuti stupri a cui viene sottoposta.
E così inizia anche la pena di Emi, che si trascinerà dietro per tutta la vita orribili sensi di colpa.
Figlie del mare – Due vite parallele, un unico dolore
Si intrecciano quindi due narrazioni parallele: una che segue Hana e la osserva crescere in una donna coraggiosa e ribelle, piegata ma non spezzata dal proprio destino. La seconda ci fa incontrare una Emi ormai anziana, madre e nonna, che a suo modo ha subito le stesse torture della sorella maggiore. Un matrimonio forzato, un marito odiato; ma, sempre, la libertà del mare.
Il ricordo del mare e dell’amata sorellina sono ciò che mantiene in vita Hana, con la speranza di poter prima o poi immergersi nuovamente tra le onde. Il rapporto con il mare invece è per Emi l’ultimo legame con la propria famiglia, l’unico posto in cui senta di essere ancora la bambina felice di un tempo.

Un particolare dalla copertina di Figlie del mare, di Mary Lynn Bracht (Credits: Tea)
Hana finisce per diventare la parte intrisa di speranza della narrazione. Nonostante la situazione spaventosa rimane tenace e determinata a sopravvivere nonostante tutto. Emi, al contrario, trascorre l’intera esistenza schiacciata dal dolore e dalla consapevolezza del destino della sorella. Rappresenta tutte le sopravvissute di questo orrore, amplificato dalla negazione di un vero e proprio riconoscimento internazionale.
Le comfort women: un massacro ancora impunito
Tutti gli anni Emi si reca di nascosto a Seoul, per unirsi alle manifestazioni delle comfort women che si svolgono davanti all’ambasciata giapponese. Dall’8 gennaio 1992 infatti, questa donne, insieme alle loro figlie e nipoti, si radunano ogni mercoledì per chiedere giustizia.
Nel 2015 una statua di bronzo, detta Statua della Pace, è stata installata davanti all’ambasciata, a ricordo delle decine di migliaia di donne coinvolte in uno dei crimini di guerra più efferati del secolo scorso.

Statua di una comfort woman posta al di fuori della Korean Society di Melbourne (Credits: April Jennifer Muller, Creative commons)
Molte altre installazioni sono comparse in tutto il Paese, e alcune hanno addirittura varcato i confini nazionali. Sono infatti tra le 70mila e le 200mila le donne sacrificate da questa tratta mostruosa. Una tratta la cui ignobile esistenza è stata per decenni negata dal governo giapponese. Il rifiutare con decisione un passato scomodo non è d’altronde prerogativa del solo Giappone. Ancora oggi infatti l’Italia cerca di ignorare, con sempre meno successo, la dura realtà del madamato. Negli anni ’30 del secolo scorso infatti corpi delle donne africane sono stati trattati come meri oggetti di scambio, esattamente come accadde alle coreane pochi anni dopo.
Ancora oggi, il Giappone rifiuta di riconoscere moltissimi dei crimini perpetrati in Corea durante la dominazione.
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