
Il gabbiano Jonathan Livingston – La gioia del condividere secondo Richard Bach
Il gabbiano Jonathan Livingston è un racconto di Richard Bach pubblicato nel 1970. Un libriccino che ha avuto un enorme fortuna, tanto da segnare il successo dell’autore. Perché ve lo propongo, a più di cinquant’anni di distanza?
Perché è una fiaba che mi è entrata nell’anima. E che associo al Natale. Non so bene perché, forse perché la prima volta in cui l’ho letto era Natale. O perché la copertina dell’edizione che possiedo è bianca e mi ricorda la neve. Quale sia il motivo, in questo articolo non vi racconterò la vicenda, che bene o male conosciamo tutti.
Rifletterò, invece, su alcuni aspetti che mi hanno particolarmente colpito.
“Ma perché non devi essere un gabbiano come gli altri?”
Fin da subito si intuisce che Jonathan non è un gabbiano come gli altri. Lo Stormo Buonappetito (splendido nome parlante) pensa unicamente a sopravvivere. Lui vuole vivere. Vivere completamente, godersi ogni attimo, tentare e ritentare. Cadere e rialzarsi. Vivere una vita piena.

La copertina di Il gabbiano Jonathan Livingston, di Richard Bach (Credits: Rizzoli)
Jonathan non ha ancora ben chiaro cosa voglia dire vivere, ma sa che la natura gli ha fornito le ali per volare. Quindi vola. E sperimenta tutto ciò che possono compiere le sue ali. Come i migliori pedagogisti suggerirebbero, scopre tramite l’esperienza diretta il suo corpo e le sue potenzialità.
“Perché non devi essere un gabbiano come gli altri?”, gli chiede sua madre. Perché Jonathan non vola per uno scopo primario – mangiare? Perché non segue la Legge dello Stormo?
Quante volte intuiamo di essere diversi da come gli altri ci vorrebbero? Che le regole cui dobbiamo obbedire sono scelte degli uomini (non sempre della maggioranza) e, in quanto tali, possono essere modificate… ma non sappiamo come? Chi di noi ha il coraggio di prendere in mano la propria vita e cambiare radicalmente, pur rischiando di dover affrontare dolori e sacrifici?
Jonathan non ha modo di rispondere a sua madre: deve ancora capire. Ha intuito, ma non ha capito. Eppure, in cuor suo sa di avere ragione. Però nutre ancora dei dubbi, non si fida di se stesso e delle sue percezioni. E se avessero ragione gli altri? “Devo scordarmi quello che ho imparato. Gabbiano sei e da gabbiano vola”, si dice Jonathan.
Ma una volta intuite le infinite possibilità del volare, è possibile tornare indietro? Una volta che si è intuito l’infinito oltre la siepe di Leopardi, come si fa a vivere nel mondo come se niente fosse?
E poi. Lui ha provato gioia nel volare: se il volo è gioia, gioia pura, perché deve essere negativo?
Il gabbiano Jonathan Livingston: il vero limite è la paura del fallimento
Ci sono alcuni termini che vengono ripetuti più volte nel racconto. Ebbrezza. Paura. Imparare. Limite. Tutta la vicenda è incentrata sul desiderio di superare i propri limiti. I limiti devono essere riconosciuti. Dico questo perché i gabbiani dello stormo non riconoscono i propri limiti, quindi non si spingono oltre. Un po’ come i compaesani di Giacomo Leopardi non si rendevano conto di accontentarsi, quindi non cercavano la felicità.
Una volta riconosciuto un limite, a volte, bisogna desiderare di superarlo. E l’unico modo per superarlo è imparare come si fa a superare le proprie paure. Ciò che Jonathan capisce durante il racconto è che il vero limite è avere paura di fallire. Fallire perché si sogna. Fallire perché si è diversi. Finché la paura domina le azioni, i limiti (invalicabili) permangono.
Cosa vuol dire allora vivere? Liberarsi dalle proprie paure. Provare l’ebbrezza di volare. Gustare la gioia della vita. E trovare la libertà.
Dirà infatti Jonathan: “Siamo un’immagine del Grande Gabbiano, un’infinita idea di libertà, senza limiti.” E altrove: “L’unica vera legge è quella che conduce alla libertà. Altra legge non c’è.”
Una lettura cristiana o laica?
Spesso leggendo il racconto, tanti passaggi richiamano la religione cristiana. Essere un’immagine del Grande Gabbiano ricalca l’essere a immagine e somiglianza di Dio. La vera legge è quella che conduce alla libertà, e per i cristiani la vera libertà nasce nel seguire Dio.
Quando Jonathan decide di seguire i due gabbiani splendenti, alla fine della prima parte del racconto, o quando Jonathan chiede al gabbiano Fletcher di seguirlo, la risposta è: “Sono pronto”. La risposta ricorda quelle dei profeti, o di Maria e del suo “Sì”.

(Credits: Marco Frongia)
Ma è anche vero che noi ritroviamo nelle nostre letture chi siamo. E che i riferimenti al cristianesimo sembrano tanti perché la società in cui viviamo è stata modellata anche della sua componente religiosa, che affiora inevitabilmente.
Perché specifico questo? Altrove, si afferma che i gabbiani imparano non per fede ma tramite l’intelletto, e che tutto è possibile: basta imparare a riconoscere i meccanismi di ciò che si vuole fare. Ciò, per esempio, non è perfettamente compatibile con la fede cristiana che, per l’appunto, deve essere un atto di fede. Proprio come spiega Dante nella Divina Commedia: la Ragione (Virgilio) lo accompagna per più della metà del suo viaggio, ma quando si raggiunge un certo limite – termine che ritorna – la religione va accettata per fede (la Teologia-Beatrice), altrimenti si trasforma in filosofia.
Il gabbiano Jonathan e il seguitare a istruirsi sull’amore
Jonathan, dopo aver imparato molte cose sul volo, decide di tornare tra i suoi. Perché? Jonathan impara questo: è inutile continuare a istruirsi e perfezionarsi se ciò non è condiviso con gli altri. Non è importante diventare perfetti, compiuti. L’importante è esserci, essere là. Condividere ciò che si è appreso, stimolarsi a vicenda. Nessuno è mai arrivato: la vita è un viaggio alla scoperta delle infinite possibilità.
Fondamentale, quindi, è capire che non si smette mai di imparare. E si impara che la vera libertà è non sentirsi mai arrivati, ma sempre in cerca. Ci sono forse degli echi di Socrate? Siamo contemporaneamente maestri e allievi, dobbiamo capire quando è il nostro momento e quando quello dell’altro. Dobbiamo imparare ad avere quel tipo di amore totalizzante e difficile che solo le madri conoscono.
E le relazioni con gli altri?

Un dettaglio della copertina del libro di Richard Bach (Credits: Rizzoli)
“Se la nostra amicizia dipendesse da cose come lo spazio e il tempo, allora, una volta superati spazio e tempo noi avremmo anche distrutto questo nostro sodalizio”, dice Jonathan al suo amico Sullivan quando decide che è giunta l’ora di andarsene. Uscire di scena non vuol dire necessariamente scomparire nella vita di quella persona, ma evitare che una relazione diventi squilibrata e che un amico diventi una sorta di idolo, o che una madre diventi troppo invadente.
Ci si ritroverà, nei modi e nei tempi giusti.
Il gabbiano Jonathan: il maestro dell’amore
Jonathan insegna la libertà di essere. E la libertà è ciò di cui si nutre l’amore. Se un amore è vero, allora è libero. Quando Fletcher chiede a Jonathan perché lui ami ancora quei gabbiani che avevano cercato di ammazzarlo, lui risponde così.
“Non è mica per questo che li ami. E’ chiaro che non ami la cattiveria e l’odio, questo no. Ma bisogna esercitarsi a discernere il vero gabbiano, a vedere la bontà che c’è in ognuno, e aiutarli a scoprirla da se stessi, in se stessi. È questo che io intendo per amore. E ci provi anche gusto, una volta afferrato lo spirito del gioco.”
Questa è in assoluto la mia frase preferita. E, per deformazione personale, mi ricorda tanto Calvino:
“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”
Il gabbiano Jonathan Livingston: rileggere un classico
Il gabbiano Jonathan Livingston è un libro letto e riletto da più generazioni. Ma che ognuno legge a modo suo, a seconda del momento della vita che sta affrontando, delle sue scelte, della sua formazione e della sua cultura. Eppure, quell’ebrezza del volo, quella gioia di vivere, è comune a tutti.
Qual è il vostro modo di volare?
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