Pandemia in letteratura – Luoghi comuni e verità storiche


Ultimamente a ciascun uomo nel mondo pare di vivere in un film, o in una specie di pandemia come si trova in letteratura, dove ognuno è protagonista di una saga noir. Tutti conosciamo il significato della parola più cliccata del 2020, “pandemia”, o almeno questo è quello che crediamo.

Ugualmente crediamo di essere i più sfortunati esseri della storia, colpiti da un’epidemia mondiale, costretti all’immobilità e impossibilitati a viaggiare.

Ma è davvero così?

“Pandemia” non vuol dire… pandemia

Innanzi tutto etimologicamente la parola pandemia deriva da due parole greche (pan e demos) che significano rispettivamente tutto e popolo. Quindi pandemia non significa “orribile-malattia-che-ovunque-ti-giri-nel mondo-ti-contagi-e-non-c’è-scampo” ma un molto più rassicurante “cosa che riguarda tutto il popolo”.

Un gruppo di giovani si racconta novelle su un prato in un dipinto di John William Waterhouse

Una famosa pandemia in letteratura è rappresentata dall’epidemia di peste descritta nel Decameron di Boccaccio (Credits: John William Waterhouse, A tale from Decameron, 1916, Lady Lever Art Gallery, Liverpool, pubblico dominio)

Indovinate chi ha portato in campo medico per primo questo concetto? Ovviamente lui, il medico per eccellenza: Ippocrate, quando tratta delle epidemie nel suo Corpus Hippocraticum.

L’epidemia come punizione divina

In antichità si pensava che qualsiasi epidemia fosse mandata dagli dei sugli uomini per punirli di qualcosa: basti pensare al primo canto dell’Iliade e alla descrizione della pestilenza fatta da Omero.

Apollo mandò la peste nell’accampamento acheo perché adirato con il comandante Agamennone per via di Criseide, figlia del proprio sacerdote Crise e fatta schiava dal generale greco. Ovviamente la peste finì non appena Agamennone restituì Criseide al padre.

In seguito a questo fatto, però, il generale pretese una schiava al posto di Criseide e rapì Briseide, già ancella di Achille. Così si scatenò una lotta interna all’accampamento, culminata con il ritiro di Achille dalla guerra, che portò quasi alla disfatta dei Greci.

Sotto alcuni punti di vista poteva quasi essere meglio la peste: è raro che una pandemia (in letteratura) sia stata peggio di un Achille adirato.

Boccaccio la prende come una vacanza

Nel 1300 l’Italia fu notoriamente colpita da numerose carestie e pestilenze. Boccaccio, che dei tre “grandi del Trecento” era il più “piccolo”, descrisse la peste di Firenze nel suo capolavoro: il Decameron.  Immaginò che dieci tra ragazzi e ragazze si ritirassero in campagna per evitare il contagio. Oggi diremmo che si imposero una quarantena volontaria.

Ciò che colpisce è che Boccaccio, nella sua descrizione della peste, parli di una riduzione dei rapporti e delle convenzioni sociali via via che si espandeva il morbo: “E lasciamo stare che l’uno cittadino l’altro schifasse e quasi niuno vicino avesse dell’altro cura e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano”.

In ogni caso i dieci ragazzi in questione, forse esasperati dalla malattia e dalle difficoltà della convivenza civile, trascorsero insieme dieci giorni, come suggerisce il nome dell’opera: Deca, ovvero dieci, e hemera, ossia giorni.

Dieci giorni di quarantena che hanno dato vita a una delle più grandi opere della letteratura: noi in due mesi abbiamo dato vita agli applausi dal terrazzo. A ciascuno il suo commenterebbe Pirandello.

Un’altra celebre pandemia in letteratura: quella dei Promessi sposi

In Italia, quando pensiamo a una pandemia pensiamo alla peste del Manzoni. Due sono le grandi pestilenze che colpirono l’Europa e di conseguenza l’Italia nel corso dei secoli: quella del Trecento e quella del Seicento. La seconda venne magistralmente descritta nei Promessi sposi, il capolavoro della nostra letteratura, il romanzo che rappresenta la coscienza civica e sociale della borghesia. Insomma, il testo che ha distrutto l’ancien régime della letteratura.

Due malati di peste bubbonica vengono assistiti da un medico in una miniatura del Trecento

Un medico assiste due pazienti affetti da peste bubbonica (Credits: pubblico dominio)

Manzoni descrive la peste come una follia collettiva. Il popolo assaltava i forni di Milano, preoccupato che non ci fosse più disponibilità di viveri, come oggi la gente assalta i supermercati con l’ansia di non avere più cibo. Penso che però, nel Seicento, le penne lisce sarebbero state comunque comprate.

Manzoni, la peste nera e il paziente 0

Non solo: nella peste del Manzoni si individua il “paziente 0” nella figura di Antonio Lovato, un soldato che aveva rubato vestiti ai lanzichenecchi e li aveva portati a Milano, città dove risiedeva. Ovviamente il soldato e la sua famiglia sono stati segregati in casa dall’Autorità sanitaria ma il contagio si diffuse ugualmente.

Addirittura venne costituito un “cordone sanitario” intorno alla città di Milano (una sorta di zona rossa, come la chiamiamo oggi) ma il nostro autore ci dice che accadde troppo tardi: il contagio si era diffuso e la peste era già in città.

Le persone si contagiavano così rapidamente che Renzo, quando incontrò il suo amico Tonio, trovò un uomo inebetito vestito solo di una camicia, seduto per terra, che ripeteva con sguardo vacuo “a chi la tocca la tocca”.

In ogni caso, la peste nera serve anche a risolvere il problema iniziale del romanzo: don Rodrigo, il fanfarone spagnolo che voleva portare via Lucia a Renzo, muore di peste. Ogni tanto “la tocca” anche alla persona giusta.

Proteggersi dal contagio secondo la letteratura

Ogni epidemia trova dispositivi di protezione anticontagio propri, ma nel caso delle malattie respiratorie si fa uso di mascherine che proteggano bocca e naso.

Pensiamo alla Venezia del Seicento e alle famosissime maschere col becco piene di erbe medicinali, tipiche dei medici ai tempi della peste. Oppure ai foulard, utilizzati durante l’epidemia di spagnola degli anni Venti del Novecento.

La spagnola, inoltre, è la vera regina di Twilight, famoso romanzo per adolescenti scritto da Stephenie Meyer. In sostanza il protagonista – Edward – stava morendo di spagnola, ma poi è stato morso da un vampiro ed è diventato un vampiro lui stesso, salvandosi così dalla morte. Anche il morso di un vampiro, talvolta, può rivelarsi un efficace Dpi.

Un uomo con un turbante viene dipinto su un muro munito di mascherina anti-covid, a significare che la pandemia interessa ogni popolo della Terra

Un uomo, apparentemente proveniente da un popolo lontano, dipinto su un muro provvisto di mascherina. Il soggetto perfetto per un articolo sulla pandemia in letteratura! (Credits: Loco Steve, Creative Commons, immagine tagliata)

Maschere e mascherine

Anche oggi, come ieri, come in ogni epidemia, il primo dispositivo di protezione individuale utilizzato è la mascherina. Ne abbiamo di vario tipo: di stoffa, chirurgiche, Ffp2, Ffp3 e via dicendo. Copriamo, per causa di forza maggiore, il nostro viso. Indossiamo maschere.

Questo significa che quando l’epidemia sarà passata saremo finalmente liberi dalle maschere? No.

Non lasciamoci ingannare dalla realtà e ascoltiamo Pirandello: ogni uomo indossa una maschera a seconda della situazione che vive.  Abbiamo maschere per il lavoro, maschere per le relazioni, maschere per la famiglia, persino maschere per quando siamo soli con noi stessi. Secondo Pirandello non possiamo mai togliere la maschera: possiamo solo riconoscere di averla.

Il nostro Premio Nobel ci direbbe che non saremo liberi quando toglieremo la mascherina, ma lo saremo quando con consapevolezza, ogni mattina, potremo scegliere quale maschera indossare.

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