Cesare Pavese, Il mestiere di vivere e i dolori di una giovane prof
Nell’ultima edizione dei Colloqui fiorentini è stato annunciato l’autore di quest’anno: Cesare Pavese. A quella dichiarazione, gli studenti hanno rivolto lo sguardo a noi, docenti di italiano, speranzosi di ricevere buone notizie. “Cesare Pavese è un autore straordinario. Vi piacerà molto”. La mia collega in effetti ha risposto con frasi simili – ma lei non fa testo: ha letto Proust a 14 anni. Io ho iniziato a sudare freddo, seppur con un sorriso di circostanza.
“Ma chi ha mai letto Pavese?” pensavo. In terza liceo ero arrivata sì e no a Montale. All’università, l’unico esame di letteratura italiana partiva dalle origini fino all’età contemporanea e, per sopravvivenza, avevo operato dei tagli arbitrari al programma, tra cui lui. Tutte cose che, ai propri studenti, non si possono rivelare.
Come colmare questa lacuna? Vergognandomi di chiedere un parere alla collega, ho agito di testa mia. Sono partita dal suo diario personale, Il mestiere di vivere. Se è un diario, ho pensato, e se comincia quando lui più o meno ha la mia età, sarà più facile intuire il suo pensiero. Ovviamente mi sbagliavo.
Ma ho scoperto la persona nascosta dietro alle parole. Non so bene quando abbia smesso di trattarlo come un “autore di letteratura”: so solo che ho divorato Paesi tuoi, e da lì non ho più letto per dovere. Credo che sia uno di quei pochi autori che, come afferma il giovane Holden, “vorresti che l’autore fosse tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira”.
Ma come si racconta una persona?
Sa qual è la cosa che mi irrita di più? Che quel trattino, quel fottuto trattino rappresenta la sua vita
(Puck, Glee, quinta stagione)
Cesare Pavese: la vita implicita nelle opere

Santo Stefano Belbo (Credits: Adrian Scottow, Creative Commons)
Cesare Pavese è anzitutto la sua biografia. Sì, anche quella su Wikipedia. Ma soprattutto quella implicita in tutte le sue opere, proprio come implicita è la Venezia di Marco Polo, nelle Città invisibili di Italo Calvino. “Ogni volta che descrivo una città dico qualcosa di Venezia. In ogni sua opera c’è allora Santo Stefano Belbo, ma anche Torino, Genova e la riviera ligure e, suo malgrado, Brancaleone Calabro.
Se i luoghi sono facilmente riconoscibili, ancora più espliciti sono i riferimenti alla propria persona. Anguilla, Corrado o Pablo altro non sono che suoi alter ego. Sono personaggi diversi tra loro, come diverse sono le schegge di uno specchio in frantumi. Ma un lettore poco accorto potrebbe non notare tanta diversità – e avrebbe ragione: come le schegge di uno specchio sono comunque fatte di vetro, ogni personaggio è attorniato dalla stessa malinconia. Malinconia, e non nostalgia, perché Pavese trasforma il tempo reale in mito e, con lucidità intellettuale, sa che il mito non può convivere con la realtà, pur essendone il sostrato implicito. I suoi personaggi, dunque, ricercano un mito impossibile da raggiungere dalla propria dimensione. Una ricerca che dura tutta la vita che non porta da nessuna parte.
Un intellettuale oltreoceano

(Credits: Pmk58, Creative Commons)
Se è vero in generale che “sei i libri che hai letto” (Tu non sei i tuoi anni, Hernest Hemingway), ciò è vero all’ennesima potenza per Pavese. Profondo conoscitore della letteratura italiana ed europea, è uno dei primi che scopre e traduce autori statunitensi, tanto da laurearsi con una tesi su Walt Whitman e da tradurre Herman Melville. Il mestiere di vivere è così ricco di citazioni e riflessioni al punto da essere stato spesso associato allo Zibaldone di Leopardi. Lo scrittore riflette di poetica, metrica, letteratura comparata, filosofia. Da ricordare inoltre l’incarico ottenuto alla casa editrice Einaudi: gli fu concesso il lavoro in quanto meno invischiato politicamente rispetto ad altri.
La Resistenza: io non c’ero

Pavese, Ginzburg, Antonicelli, Frassinelli (Credits: parchi letterari)
Ma Pavese è anche la sua mancata resistenza. Antifascista per indole, sarà coinvolto suo malgrado nel clima di ribellione degli anni Trenta e per questo destinato al confino. Dopo il suo ritorno a Torino non imbraccerà mai le armi contro i nazifascisti. Il rimorso di non aver partecipato alla Resistenza lo accompagnerà per tutta la vita. Tanti intellettuali a lui contemporanei hanno preso strade diverse in quei terribili anni; molti dei suoi migliori amici sono morti. E strazianti sono le parole nel diario per Leone Ginzburg, della cui morte viene a conoscenza quasi un mese dopo.
3 marzo 1944: «L’ho saputo il 1 marzo. Esistono gli altri per noi? Vorrei che non fosse vero per non star male. Vivo come in una nebbia, pensandoci sempre ma vagamente. Finisce che si prende l’abitudine a questo stato, in cui si rimanda sempre il dolore vero a domani, e così si dimentica e non si è sofferto»
In questi giorni, in cui da poco è stato celebrato il 25 aprile, sembra controproducente soffermarsi su un autore che “non c’era”. Ma credo che anche questo sia necessario per conoscere la persona di Cesare Pavese: un uomo amante della vita, in tutte le sue forme, ma che non ha avuto la fermezza di lottare per i propri ideali. Il suo non-agire non è nascosto: è riscontrabile dappertutto, e metaforicamente anche nell’immobilità dei luoghi e delle persone delle sue opere. Nel diario spesso si chiede chi voglia prendere in giro, chi cerchi di ingannare parlando di ideali, di felicità, di vita. Ecco, Pavese è uno dei pochi intellettuali fedele a se stesso, che non finge di essere un altro. Nel bene e nel male.
Le donne di Cesare Pavese
L’uomo Cesare Pavese è anche la somma delle donne che ha desiderato, che ha avuto e che ha perso. Ovunque dominano le figure femminili che alterano gli equilibri degli ambienti in cui vivono, come Clelia, la moglie incomprensibile di Guido nell’opera La spiaggia, o Cate, donna semplice da un passato misterioso che ricompare dopo anni davanti a Corrado nella Casa in collina.
Pavese ha un rapporto controverso con l’altro sesso: è un mistero che non coglierà mai. Da giovani, le ragazze sono frivole e spesso ignoranti: un Pavese giovane e intellettuale si sente superiore all’altro sesso, come evidenziano i tanti episodi erotici accennati nei testi, nei quali per la ragazza è quasi sempre la prima volta mentre per il suo alter ego no. Ma poi le ragazze crescono e diventano donne: hanno conosciuto la vita, sono madri, mogli. E Pavese, che invece è rimasto lo stesso, si sente in difetto, inferiore, nudo.
Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più
(18 agosto 1950)
Infine, Cesare Pavese è il suo suicidio. Dopo averlo conosciuto nel dettaglio, ammetto di aver sperato che non si sarebbe tolto la vita. Ero molto tentata di non leggere la fine del diario, un po’ come mia sorella, quando ha deciso di non leggere la conclusione della biografia di Giulio Cesare sperando così che non sarebbe morto.

(Credits: Einaudi)
Quanto deve aver sofferto una persona per decidere di porre un limite non naturale alla propria vita! Nessuno ha il diritto di giudicare il gesto né può avere la presunzione di trovare delle giustificazioni.
Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela la nostra nudità, miseria, inermità, amore, disillusione, destino, morte.
(Il mestiere di vivere, 25 marzo 1950).
La cosa certa è che nel diario Pavese spesso riflette sul suicidio e sulla morte; e la morte non naturale (come quella di Gisella, in Paesi tuoi, o dei corpi riesumati dal fiume nella Luna e i falò) è sovente una protagonista che aleggia su tutto. Proprio La luna e i falò, il suo capolavoro nonché ultimo scritto e per certi aspetti il suo testamento poetico, termina con il racconto della morte di Santa e con il fuoco che estingue il suo cadavere. E con esso, come fosse un rito ancestrale, si ricompone quell’equilibrio che la guerra aveva alterato. A Santo Stefano Belbo come nella vita del poeta.
Perché leggere Cesare Pavese oggi?
Pavese è un intellettuale in continua ricerca, che non si accontenta di soluzioni preconfezionate ma che vuole trovare delle risposte da solo, anche se ciò vorrà dire guardarsi allo specchio e ammettere che il proprio riflesso non corrisponde all’immagine che si è fatto di se stesso. Vive le proprie paure, e la scrittura lo aiuta a esorcizzarle. Per la società di oggi che esorta a fingersi diversi, avere il coraggio di essere deboli è l’insegnamento più prezioso.
Inoltre, il suo sguardo cristallino sul mondo invita ad apprezzare sinceramente ciò che ci circonda. Questo vale per i luoghi, infatti le descrizioni delle sue colline o del mare sono così cariche di sentimento da dare l’illusione di averli davanti agli occhi. Ma vale anche per le persone: non esistono comparse ma tutte le figure sono personaggi reali per via di un’azione o di una frase che le rende umane.
Infine, perché Pavese ha sofferto tanto. Il suo è un dolore universale prima ancora che personale, un dolore che ha più attinenze con la filosofia che con la sua biografia.
Ma proprio per questo ci fa amare ancora di più la vita.
Io ci sono stato a Santo Stefano Belbo.