La notte ha la mia voce, di Alessandra Sarchi


Il nostro corpo è una carta geografica. Scorrendo le pieghe della pelle si attraversano i fiumi di emozioni vissute. Un muscolo contratto è la montagna che un tempo non siamo riusciti a superare. Le nere pupille sono la zona più profonda del nostro mare di pensieri, desidèri che a volte fuoriescono sotto forma di lacrime. Certe cose però, non scivolano via nemmeno dopo una cascata di pianti. Alcuni avvenimenti sono così potenti che ci cambiano, spostano tutti i nostri confini interiori: la perdita dell’uso delle gambe per esempio, e di tutto ciò che va dall’ombelico in giù. E’ ciò che è capitato alla protagonista del romanzo di Alessandra Sarchi, ne “La Notte ha la mia voce”, edito da Einaudi. Reduce lei stessa da un incidente stradale a soli 30 anni, Sarchi ha fatto della propria storia personale un’arte, risultando finalista al Premio Campiello.  Con questo libro, attraverso linguaggi e immagini raffinati, mai banali, dà voce ai territori più nascosti della disabilità. S’immerge negli anfratti dell’animo femminile, esplorandone la complessità, con un penna che non risparmia le verità più scomode. Questo è il terzo libro dei cinque finalisti che presentiamo nella nostra Rubrica.

TERRA: l’anonima protagonista dal suo equatore in giù non sente più nulla e questo cambia anche la geografia intorno a lei. Le strade che un tempo attraversava facendo leva sui polpacci, adesso sono ostacoli insormontabili. Insopportabile è la perdita dell’immagine che ha di se stessa, tagliata in due tra passato e presente, come il suo midollo spinale dopo l’incidente. I suoi fianchi sono ora un tutt’uno con la carrozzina, i suoi orizzonti si sono abbassati all’altezza delle maniglie. Ballava, un tempo. Coi piedi fendeva lo spazio, sui piedi ruotava, sentiva la terra. Ora non è più in grado di tracciare orme; tenere i piedi rialzati sul predellino della carrozzina “non è come volare, è solo mancare di presa”. Adesso sono le mani a decidere la direzione del moto; tuttavia ben più difficile è accettare la direzione che ha preso la vita. I fantasmi del passato vengono zittiti, il presente è un ostacolo e il futuro va ricostruito movimento dopo movimento.

Giovanna invece, soprannominata “la Donnagatto” dalla protagonista, sembra camminare sopra tutto questo. Il primo contatto tra le due donne avviene attraverso una tenda che separa i loro letti, durante la fisioterapia. La sua voce vigorosa di donna, “argentina anche nei bassi, piena di scarti e risalite, come acqua che attraversa i coralli”, smuove l’animo della protagonista. Un incontro destinato ad attivare la sua voglia di sapere, capire, imitare, provarci. La Donnagatto sembra essere il suo opposto, nonostante sia anche lei disabile, senza una gamba e con l’altra paralizzata.

Tuttavia ha la testa alta, le idee chiare, la capacità di scendere dall’auto trasportandosi sulla carrozzina e di risalire l’esistenza spazzando via frantumi del passato, usando gli ostacoli per arrampicarsi. Ma questa sicurezza che non accetta mediazioni da cosa nasce? Da altrettante mediazioni, forse. La casa di Giovanna è un santuario di foto di ballerini, una cappella sistina di corpi danzanti. Un manifesto alla sete d’infinito e di libertà dei corpi. La sofferenza della protagonista elimina, la sete della Donnagatto riempie. Le pareti, gli spazi, le giornate, lo spirito.

 

ARIA: Cosa nasconde questa donna? Di cosa si nutre la sua forza? Dei desideri, che vanno ricostruiti e assecondati. Il mondo dell’immaginazione, in grado di ricreare e far vivere ciò che non c’è più. La Donnagatto di mestiere è Veronica, per la privacy. Ha le gambe lunghe, lisce e toniche che vengono toccate, accarezzate, leccate dall’uomo dall’altra parte della cornetta. Un cliente di pochi minuti che si lascia attorcigiare dal corpo di quella donna per intero. In queste telefonate torna in vita l’arto fantasma, come se nulla fosse stato interrotto. La Donnagatto sente e asseconda il proprio desiderio di piacere, di riscatto, di esistenza e di resistenza. “Era vicina alle cose, aveva la semplicità diretta delle cose e concepiva il proprio corpo, e forse la sua intera vita, come un’estesa performance.”

ACQUA: “Aquile, leoni, orsi, pantere, giaguari, nessuno di loro su una sedia a rotelle. Saggiamente, in tal caso, si lasciano morire.” Ma per la protagonista non è così. Sopravvissuta, necessita di un adattamento, un’evoluzione. Sua figlia ha in casa un pupazzo a forma di Tiktaalik. E’ una creatura preistorica il cui fossile è stato rinvenuto ai margini dei fiumi del Canada nord-orientale. Un animale di passaggio tra i pesci e tetrapodi. Per sfuggire ai propri predatori, il Tiktaalik, un esemplare dopo l’altro, ha tirato fuori la testa dall’ acqua, trasformato le pinne in protozampe, fatto germogliare i polmoni e affrontato la gravità sulle articolazioni in divenire.  Sopravvissuto con le proprie forze, il proprio corpo in trasformazione. La Donnagatto è consapevole di un’ancestrale verità: che ogni corpo è una gabbia e che la tentazione alla libertà non appartiene a chiunque. Lei sta sulla terraferma come un esemplare unico, il suo corpo è un tutt’uno con la sua nuova condizione, ed è perciò libero. La protagonista comprende che è la sete di libertà la spinta a trasformarsi.  E’ nelle leggi fisiche dell’acqua che da tetrapode sfugge ai propri predatori. Immerse nell’acqua, le sue gambe ritrovano flessuosità. Sono pinne, coralli, appendici metamorfiche. C’è un nuovo corpo libero segnato sulla cartina geografica. Lì, nella profondità del mare.

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